Cosa può fare un ragazzo del North Dakota, dove
la massima eccitazione quotidiana è la discussione sulla potenza del motore dei
trattori, e l’inverno occupa tre delle quattro stagioni che dovrebbero
susseguirsi nell’anno? Se poi è uscito di casa per la prima volta nel bel mezzo
della guerra fredda cosa gli rimane? “Poteva succedere di tutto, e forse prima
o poi sarebbe successo, ma non sarebbe cambiato nulla. Nessuno sembrava
preoccuparsi troppo per il gran numero di testate nucleari che i sovietici ci
puntavano addosso: per quanto ne sapevo io, eravamo sull’orlo della guerra
ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette, ma questo faceva
parte dell’essere americani” ammette con un certo candore Chuck Klosterman
nelle prime pagine di Fargo Rock City ed è chiaro che quando gli capita in mano un
nastro con Huey Lewis da una parte e un colata incandescente di heavy metal
dall’altra non c’è partita. Come capita sempre, come è capitato a tutti
(conosciamo molto bene quella sensazione) all’improvviso Chuck Klosterman,
comincia a sentirsi meno solo e meno alieno. Sa che le immagini dell’heavy
metal e del rock’n’roll sono costruite dettaglio per dettaglio ma, per sua
ammissione, è “troppo stupido per essere influenzato dalla follia del
marketing” e si concede, così come concede a tutti noi, il beneficio di aver
trovato qualcosa nella musica (e non solo nell’heavy metal) che “non aveva
niente a che fare con le cose di cui si parlava, il suo significato era quello
che tutti potevano dargli”. Fin qui, le fondamenta di Fargo Rock City sono solidissime e
concrete soprattutto perché la traballante apologia dell’heavy metal più
posticcio e banale, dei luoghi comuni più elementari e consunti e dell’idea che
anche entità come Mötley Crüe o Guns N’ Roses possano assumere valenze che
forse nemmeno i loro componenti riconoscerebbero, risulta immediata e
simpatica. Quello che succede addentrandosi in Fargo Rock City è che Chuck Klosterman
riempie il serbatoio fino all’orlo di heavy metal, poi parte per la tangente
frullando senza tante esitazioni i suoi excursus autobiografici con le vicende
dei Van Halen o degli AC/DC, con le logiche (piuttosto meccaniche)
dell’industria discografica, con i riflessi sociologici dell’alienazione nella
provincia americana e spruzzando tutta la miscela con un sarcasmo effervescente
e senza inibizioni. Il colorito ibrido che alla fine si cela dentro Fargo
Rock City
si regge sulle gambe come il frontman di un gruppo heavy metal alla fine di un
tour worldwide. Non cade, però Chuck Klosterman sente la necessità di precisare
le sue intenzioni, neanche stesse firmano una resa: “Vi starete chiedendo
perché adesso stia parlando di tutto questo, e la risposta è che lo ritengo un
esempio perfetto per mostrare quanto sia importante la percezione delle cose,
che poi è il punto di partenza da cui costruiamo il contesto delle nostre
vite”. Lo stile va su e e giù a birra e tequila (e ci sta), ma Fargo Rock
City è
molto più saggio (e rock’n’roll) di quel che appare.
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