Tutto comincia con un pacco di lettere in arrivo da un altro secolo, testimonianza di una profonda amicizia femminile e insieme di una vita tanto intensa quanto incompleta, quella di Susan Burling Ward. A rimetterne insieme la storia attraverso le sue lettere all’amica Augusta è il nipote, Lyman Ward. Storico in pensione, mutilato da una malattia ossea, separato dalla moglie, rivive le vicende famigliari in un’altra ottica. All’inizio cerca di mantenersi equidistante nei giudizi e rispetto ai modelli linguistici e morali (“Non ne faccio un caso personale. Soltanto culturale”, dice con poca convinzione) poi, più si addentra nella storia, si ritrova a confrontarsi con il sogno di una famiglia, e quello di una nazione. La costruzione del West, e del suo mito, che Lyman Ward segue dal punto di vista femminile dell’East, lo porta a raccontarlo con una sorta di realismo fuori dai luoghi comuni e dai cliché, spiegando che di selvaggio aveva la natura della colonizzazione (“So come gli americani reagiscono quando i loro interessi si scontrano con i diritti degli indiani. Reagiscono in modo disonorevole”) piuttosto che la natura della wilderness, le logiche dello sfruttamento e del mercato piuttosto che le logiche dell’ambiente naturale, le prevaricazioni degli esseri umani sugli altri esseri umani (e su tutto quanto) piuttosto che le biologiche conseguenze della catena alimentare. La sua visione diventa esplicita, e “politica”, quando scrive: “Esistono tanti pregiudizi sul vecchio West. Uno fra questi lo dipinge come la patria di un intrattabile senso di scostante autosufficienza che sconfina nell’anarchia, quando invece gran parte del West era assoggettato a capitali proveniente dall’East o dall’estero, gestiti dai padroni con pugno di ferro”. Laggiù, Susan Ward sacrifica le sue più che legittime aspirazioni artistiche, le forbite conversazioni e le amicizie seguendo i mulini a vento del marito, le miniere e i canali nel deserto. “Viviamo nel tempo e viviamo attraverso di esso, costruiamo le nostre baracche sulle sue rovine” scrive Wallace Stegner alias Lyman Ward e il contrasto tra la claustrofobia del narratore, le sue mutilazioni e la wilderness del West, dei canyon, e delle montagne (una mutilazione invece per la nonna, tutti quegli spazi aperti) intrecciano tempi e ricordi facendo riverberare echi da un secolo all’altro. La grande abilità di Wallace Stegner è prendere un ritmo, un tono a partire dalle primissime pagine e non mollarlo più fino alla fine, nonostante i cambi di scenari (dalle praterie infinite alle pareti di una vasca da bagno), di voci (dalle colte riunioni della East Coast alle rozze vicissitudini della West Coast), dei linguaggi parlati da un nugolo straordinario di personaggi femminili. Fosse soltanto per questo Angolo di riposo meriterebbe ben più del Pulitzer (che sperimentò nel 1970), ma c’è di più. Essendo una miniera con due filoni che si sovrappongono, le vite di Lyman Ward e quelle dei suoi nonni (e un terzo, quello della storia del West, compreso nel prezzo) si scopre che c’è molta durezza nella vita di tutti, secolo prima, secolo dopo, e viene mitigata soltanto dalla dolcezza dei ricordi o meglio dalla dolcezza con cui i ricordi prendono forma. L’effetto Doppler, che Wallace Stegner cita con insistenza, è tutto qui, ed è l’unico, vero angolo di riposo.
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