Si parte dall’assenza di due donne, ma poi il diario di viaggio diventa uno sguardo insieme pubblico e privato, un lungo voltarsi verso l’imminente crespuscolo, dopo la stagione dei fiori, dell’amore, dei sogni e della psichedelia e prima del grande freddo. L’addio di Richard Brautigan a questo mondo crudele ha la forma, nella sua stessa descrizione, di “una cartina-calendario che segue l’esistenza di un uomo per un periodo di qualche mese, per cui non credo sia giusto pretendere la perfezione, sempre che esista. Probabilmente le cose più vicine alla perfezione sono quegli enormi buchi completamente vuoti che gli astronomi hanno scoperto di recente nello spazio. Se davvero non c’è niente, com’è possibile che qualcosa vada storto?”. Arrivati a questo punto ci si è già persi nel suo bulimico masticare parole su parole e ci si è già lasciati alle spalle anche le spicciole coordinate narrative della trama di Una donna senza fortuna, che comunque il lettore di buona volontà non faticherà a trovare e a ricostruirsi da solo. Qui conta più ricordare che Una donna senza fortuna è l’ultimo romanzo di Richard Brautigan (e tra le righe si percepisce una netta e lancinante malinconia: “La mia vita è praticamente priva di dinamiche ormai da più di un anno e continuo a impiegare troppo tempo per fare cose semplicissime e il mio cuore è come una colonia sulla luna popolata da una specie unica di stalattiti apparentemente prive di transizioni”) che è stato un personaggio vissuto, cresciuto e rinomato nell’era di Easy Rider e da cui non è riuscito ad affrancarsi. Forse per non vedere il nulla che è seguito. Forse per conservare intatti i propri (e altrui) sogni. Forse perché la sua “cartina-calendario”, per ingenua che fosse, non prevedeva di sostituire la parola utopia con rimpianto. Sono proprio i luoghi che vengono a mancare, a partire dalla nazione che, proprio allora comincia a contorcersi su se stessa, come intuisce Richard Brautigan: “Gran parte d’America, comprese quelle città che un tempo erano splendide e incontaminate, dà l’impressione di essere stata travolta da Los Angeles, come il rigurgito di un cesso i cui escrementi hanno tutti a che fare con lo stile di vita dell’automobile”. Al viaggiatore della mente, all’esploratore psichedelico non resta altro se non “passare da un posto all’altro, ma questo non semplifica affatto le cose. L’unica cosa che puoi fare è augurargli buona fortuna e sperare che abbia un’idea di quanto gli sta inevitabilmente accadendo”. Arrivato a questo punto Una donna senza fortuna diventa quasi un presagio e insieme un’intima confessione che Richard Brautigan risolve in una sorta di ambiguo commiato: “Così mi avvio a concludere questo libro, che parla essenzialmente delle cose che conosco, dell’evidenza, spesso dolorosa dei fatti. Se mi si può credere, e si sa che gli scrittori sono notoriamente dei bugiardi, vorrei dire che l’unica rilettura che ho fatto di questo libro è stata per scoprire a che punto ero ogni volta che mi sono interrotto e mi sono perso nelle molte pause che ci sono state, talvolta brevi, altre volte più lunghe e penose”. Avesse scambiato la parola libro con vita, avrebbe detto la verità.
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