Come ricordavano Barrington Nevitt e Maurice McLuhan in Who Was Marshall McLuhan? Exploring a Mosaic of Impressions, a pranzo con Marshall McLuhan, John Cage era affascinato dalla conversazione, tanto da non ricordarsi nemmeno cosa avessero mangiato: “Per me i suoi libri, le sue domande, le sue dichiarazioni erano tutte misteriose e quindi utili. Lo sono ancora”. Per un singolare effetto di rifrazione quell’impressione si può applicare nello stesso modo a Un anno a partire da lunedì, lussuosa collezione di interventi di John Cage nell’affrontare “la vita molteplice”, l’incontro con la tecnologia, le emissioni del futuro e molto altro, in un arco temporale dal 1963 al 1967. Marshall McLuhan trova spesso un posto di riguardo, ma la predisposizione di John Cage nei confronti del linguaggio e/o della rappresentazione della realtà e della storia resta un’acrobazia senza rete, una scossa elettrica spiazzante e propedeutica a una dimensione alternativa. Schemi e imposizioni vengono archiviati senza troppi complimenti, tesi e teoremi scartati ancora prima di pensarci, il paradosso è la leva per espandere i limiti del pensiero, e magari superarli. Il testo viene frammentato, disposto in modo casuale (o forse no): i lati divergono e convergono e i cliché, gli ordinamenti, persino l’organizzazione stessa sulle pagine, vengono strapazzati e non tanto giusto pour épater le bourgeois, ma perché come ammette John Cage “non sappiamo a che punto siamo e senza dubbio non lo sapremo mai”. Il messaggio, non meno del mezzo, viene stravolto nella consapevolezza che siamo arrivati al punto che “non sappiamo più che farcene nel funzionale, del bello, o di sapere se qualcosa è vero o meno. Abbiamo solo tempo per chiacchierare”. Dalla sintassi ai caratteri tipografici, nell’ebollizione delle strutture, di citazioni e richiami, un filo continuo c’è, anche se non si vede e John Cage fa di tutto per dissimularlo. Per quanto variegate nelle origini, un po’ testi di conferenze, un po’ articoli e storie zen, le proiezioni convergono in quel modello di pensiero divergente, originale, il più delle volte sorprendente, che ha distinto John Cage tra i massimi intellettuali del ventesimo secolo. L’ottica punta costantemente a ridefinire gli strumenti dell’osservazione e della comprensione, ancora prima dell’analisi: “Potreste dire che l’impegno è la realtà definitiva dal punto di vista umano. Perciò è nostro compito quotidiano trovare modi pratici di rigirare il telescopio e guardare dall’altro capo”. Qui le attenzioni vengono rivolte ai tratti di Jasper Johns e Mirò, giusto per ricordare che “l’arte, se ne volete una definizione, è un’azione criminale. Non si conforma a regole. Nemmeno le proprie. Chiunque esperisca un’opera d’arte è colpevole quanto l’artista. Non è questione di condivisione della colpa. A ognuno di noi arriva per intero”. A quel punto il rapporto con la musica, il rumore e il silenzio è già stato articolato nei suoi elementi essenziali e John Cage ha provato a rimodellare le sue intuizioni sulla scrittura (soprattutto con James Joyce, una passione in comune con Marshall McLuhan per il Finnegans Wake), sulle forme (Marcel Duchamp, un interlocutore privilegiato, e Le Corbusier) e ogni volta lo stupore è dietro l’angolo. Nell’affrontare le macroscopiche dimensioni di intuizioni e follie, John Cage ne sottolinea fisica e chimica, come se fosse il gesto più naturale del mondo: “Il vuoto lo prendemmo per quel che era, un posto in cui poteva succedere di tutto”, e se c’è un metodo è che non c’è. La sensazione è quella di trovarsi in un campo magnetico, di aver perso qualcosa o di averlo trovato per caso (come i funghi). Non c’è spazio per i luoghi comuni anche nell’intimità dove “avendo tutto quel che ci serve, ugualmente passeremo notti insonni per il desiderio di piaceri che immaginiamo non ci saranno mai”. È un continuo spostare la destinazione, non soltanto alzare il livello, ma anche cambiarlo in modo radicale, perché “indubbiamente c’è una soglia in tutte le questioni, ma una volta che la si è varcata, non c’è bisogno di stare fermi come se si fosse immobilizzati, le regole scompaiono”. Nel gusto di ribaltare la casa c’è, insieme all’esigenza quanto mai attuale di “una morale puramente laica” anche un’ironia sottile e sorniona, quella di un vagabondo e un teppista delle parole che sa benissimo come il primo passo per rinnovare la cristalleria sia mandarla in frantumi. Il richiamo a Thoreau, nelle conclusioni, appare inevitabile, non solo come omaggio alle radici del gusto per il dissenso, ma pure per una rinnovata predisposizione esistenziale: “La vita cambia. Uno dei modi in cui cerco di cambiare la mia è sbarazzandomi dei miei desideri per non essere sordo e cieco al mondo che mi sta attorno”. Unico, prezioso, da tenere vicino e consultare spesso.
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