La forma è essenziale, diretta, spoglia e a tratti persino elementare. Le cronache quotidiane di Louise Glück tengono conto dei limiti, della semplicità dello sguardo che si accontenta dei ritratti famigliari, delle manifestazioni del clima, “un bel sole simpatico” e la neve (onnipresente) che brilla in Festa del Presidente, e delle stagioni, a partire dall’Autunno che, a discapito del titolo, è uno dei periodi più fertili per Louise Glück. Sono annotazioni spontanee, forse nella consapevolezza che “le parole non sono la risposta”, come scrive in Poesia. I versi, sciolti, liberi, sono una scrupolosa misura della lingua che si mantiene immediata, senza intrusioni specifiche. Gli alberi sono alberi, gli uccelli sono uccelli, le denominazioni scientifiche restano accantonate a favore di uno stile semplice, comodo, intuitivo e sintomo dello stupore per cui nelle Ricette per l’inverno del collettivo “il mondo ci passa accanto, tutti i mondi, ciascuno più bello del precedente”. La componente più efficace nei versi di Louise Glück è nell’istantaneità delle immagini, ricomposte secondo uno schema imprevedibile che sembra inseguire solo quelli che Robert Graves definiva i quattro oggetti naturali della poesia: “La luna, l’acqua, le colline e gli alberi”. Solo gli elementi ricorrenti nelle Ricette per l’inverno del collettivo, però la visione di Louise Glück riconsidera l’osservatore, ed è un continuo richiamare l’essenza della realtà. Avviene in particolare con Il sole al tramonto: “Fuori il sole tramontava, il tipo di simmetria precisa che ho sempre notato”, dove “l’effetto delle parole” riporta al punto di partenza, alla spontaneità dello sguardo e del suo riflesso. L’immedesimarsi con gli oggetti del desiderio è una parte sostanziale della scrittura coltivata espressamente in Un ricordo: “E mi sembrava di ricordare quel luogo della mia fanciullezza, anche se allora non c’era un fiume, solo case e prati. Così forse stavo tornando a un tempo prima della fanciullezza, all’oblio, e forse era questo il fiume che ricordavo”. Le Ricette per l’inverno del collettivo sono sviluppate da appunti che si annodano uno dopo l’altro e diventano invocazioni come succede con La storia del passaporto (“Cammino, aspettando che la verità si riveli”) o dichiarazioni di intenti, decisamente espliciti in Una storia non finita (“Ora che la storia è mia, preferisco che sia una meditazione sull’esistenza”). Nelle stesse stanze Louise Glück ammette che “forse non sapremo mai se la storia doveva essere un avvertimento o magari una storia d’amore in quanto è stata interrotta. Così non possiamo sapere se abbiamo già avuto esperienza della fine”. È la chiave di volta dietro le postille climatiche e naturalistiche, che costituiscono una cornice fluttuante finché Louise Glück non chiarisce gli ingredienti principali delle Ricette per l’inverno del collettivo: “Tutti disprezziamo le storie che sembrano aride e interminabili, la mia però sarà una storia d’amore vera se per amore intendiamo come amavamo da giovani, come se il tempo proprio non esistesse”. Nell’estrapolazione successiva, quasi una conclusione filosofica conferma che “la maggior parte dei miei fatti sono spariti, ma certi principi sottostanti si sono perciò manifestati con chiarezza sorprendente”. Questo è il frutto del “vivere nell’immaginazione”, guardando fuori, per pescare dentro.
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