Indossando una delle sue infinite maschere, Bob Dylan infine ha deciso di raccontare la sua versione della storia. Con lo stile florido di un narratore con il gusto per le variazioni linguistiche e un debole per l’iperbole, ha calato il suo personaggio in un viaggio nel tempo adatto a ricostruire, con un distacco appropriato, la sua biografia. La prima puntata delle Chronicles (ammesso e non concesso che quel Volume 1 sia in effetti l’inizio di una serie) si svela quindi più vicina alla natura del romanzo, con l’idea di ridisegnare i contorni di ere e mondi che Bob Dylan ha attraversato con una certa disinvoltura ma che, almeno nella limitata versione della realtà, appaiono parecchio distanti e in contrasto tra loro. Tra la New York del 1961 e la New Orleans del 1989, dove è ambientata, un po’ a sorpresa, la parte centrale (dedicata ai retroscena e alle storie legate alla gestazione di Oh Mercy, uno dei suoi dischi più belli nella parte recente della sua carriera) c’è un abisso temporale, politico e umano, persino meteorologico. Il Dylan di allora, risalendo quel “fiume di ghiaccio” che infine chiude ancora il cerchio delle Chronicles è un giovane “poeta musicista” (la definizione è tutta sua) con più di una perplessità sul proprio destino e su quello dell’umanità in generale: “Che cos’era il futuro? Il futuro era un muro solido, senza promesse né minacce, una vuota chiacchiera insensata. Non garantiva nulla, nemmeno che la vita non è una grande burla”. Non bisogna essere degli esegeti per vedere in quel “muro” la cortina che all’epoca divideva in due il mondo, lasciandolo sempre sul filo del rasoio di un’apocalisse nucleare, dove Bob Dylan trovò la sua voce. Nelle Chronicles racconta con dovizia di particolari e nomi e cognomi le fonti d’ispirazione, gli ospiti, i ricordi e le fidanzate, una ricostruzione di un passato teso a guardare verso il futuro e a cercare “la strada più difficile”. Il varco nello spazio e nel tempo che si apre nella New Orleans del 1989, un’era di grandi metamorfosi nel “political world” sembra messo apposta dal Dylan narratore per giocare l’ennesimo bluff, per svelarsi nell’ombra o nascondersi nella luce e infine comprendere che il futuro non è scritto e le trasformazioni partono dall’infinitesimo: “Sono le piccole cose ad adombrare quello che sta per accadere, ma non è detto che uno le riconosca. Poi succede un che di inaspettato ed ecco che ci si ritrova in un altro mondo, si fa un salto nell’ignoto e si ha l’istintiva consapevolezza di essere liberi. Non serve fare domande, si sa già qual è la posta in gioco. Quando succede sembra che succeda in fretta, come una magia, ma la realtà è tutta diversa. Non è che si senta una sorda esplosione e tutto a un tratto ci si ritrova pronti e sicuri. La transizione è più lenta. E’ come aver lavorato sempre alla luce e un giorno scoprire che viene scuro più presto, che non importa dove se e saperlo non servirebbe a niente in ogni caso. E’ una cosa riflessiva. Qualcuno regge uno specchio, toglie il catenaccio alla porta, la spalanca, si viene spinti dentro e la testa deve orientarsi in un posto che è del tutto differente. Qualche volta ci vuole qualcuno di molto speciale per poter capire che le cose stanno così”. Nessuno, meglio di lui.
giovedì 28 ottobre 2010
Bob Dylan
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