Aveva perfettamente ragione William S. Burroughs a definire “accurato” e “commovente” questo romanzo. Nessuna concessione allo stile, alle rifiniture, alla poesia: solo una lingua cruda, monca, spietata. Slang di strada, da marciapiede, da vicolo cieco, da campo di football all'imbrunire e da notte sul bancone di un bar. E' il linguaggio della “street life”, della vita di strada. Sono i primi anni Sessanta e ognuno, lungo la mappa del Bronx, tira avanti come può, ma tutti si sentono i più grandi, i migliori, i più importanti. Se stanno in bande dai nomi variopinti (tribù che si fanno chiamare Del-Bombers, Rays, Wongs, Pips e Wanderers), con divise cucite addosso come tatuaggi, sono guerrieri urbani pronti a tutto, ma quando sono soli, uno per uno, davanti agli imprevisti e alle probabilità della vita (un incidente, un matrimonio di riparazione, la chiamata alle armi) scoppiano a piangere. Richard Price è grande nell'evidenziare con il linguaggio, il gergo, le feroci battute questa frattura, questo “crescere in pubblico” repentino e senza rete di salvataggio. Il suo stile è una “street view” molto ravvicinata che si sviluppa attraverso una scrittura quasi livida nel raccontare vita e morte nei giorni e nelle notti del Bronx, ma usufruisce dell'ausilio e della complicità della musica che non è soltanto una colonna sonora per storie, soggetti e situazioni. E' un ordito essenziale nell'atmosfera del Bronx, dove riempie l'aria attraverso la radio (soprattutto) e i jukebox. Non c'è pagina, a partire dalle epigrafi all'epilogo che non contenga una fetta di canzone, un verso, una citazione destinate a sottolineare la vita delle gangs di New York. Tra la ricerca di improbabili alleanze, misere vittorie e impietose sconfitte, qualche dozzina di ragazzi in cerca di un'identità si inventano un mondo fantastico fatto di simboli, lingue intraducibili, prove di coraggio e d'amore fino a quando qualcuno o qualcosa non li fa sbattere contro la vita, quella vera. Arrivati all’inevitabile turning point, che a volte non è altro se non il cul de sac dei loro vicoli “ciascuno diventò un po' filosofo. Alcuni presero a bisbigliare per la prima volta nella loro vita. Fin ad allora, ancora più dello sport, la musica, che filtra da ogni angolo, è il collante indispensabile a rendere palpabile quell’immaginario: “Fabian, Frankie Avalon, Neil Sedaka, Bobby Rydell e Johnny Tillotson” stanno da una parte, “Dion, i Four Seasons, i Dovells e alcune nuove stelle della Motown come Smokey Robinson and the Miracles, Marvin Gaye e Mary Wells” stanno dall’altra, insieme a “quel nuovo ragazzino cieco, Little Stevie Wonder”. L'anfitrione principale (e peraltro anche il responsabile del titolo del libro, ispirato da una delle sue ballate più belle) è proprio Dion DiMucci, cantante italoamericano che è la guida (vocale) del quartiere, o meglio di quel microcosmo urbano che è il Bronx, tanto da meritarsi il ruolo, conclamato, di “king of New York”. Non a caso Richard Price gli dedica la sua storia: splendida musica (e grande libro).
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