L’esordio di Jim Harrison è la celebrazione
eccessiva di tutto ciò che sarà poi la sua carriera. Il trionfo di una
scrittura annodata alla vita, generosa ed entusiasta, romantica e passionale.
“Amo la sostanza della storia” dice Swanson, il protagonista di Lupo, e sarà vero da qui
(siamo nel 1971) in poi, perché il romanzo non ha una sua trama vera e propria,
almeno nel senso tradizionale, ed è tutto concentrato sulla figura di Swanson,
alter ego la cui identità collima in gran parte con quella dello stesso Jim
Harrison. E’ volitivo, ingordo, curioso, eccessivo. Basta leggere il suo
complicato rimedio per il raffreddore (che va bene anche senza raffreddore) per
rendersi conto della natura del personaggio e del suo autore che già si segnala
per una presa di posizione decisa e concreta: “Ma al diavolo droghe e alcol. Il
mio cervello si espande da sé e vede già abbastanza fantasmi. Da anni ormai ho
scoperto che la terra ne è infestata. Animali di forme non animalesche
imperversano in grovigli indefinibili. Li chiamano governi. Ferite che non
guariscono mai, inferte ovunque e nascoste dal tessuto cicatriziale della
nostra presenza viva. Questione fondamentale: non voglio vivere sulla terra ma
voglio vivere”. Da Boston a San Francisco il lungo guado americano di Swanson è
un rifiuto monolitico di una provvisorietà e di un’angoscia che sono molto cool
e a cui Jim Harrison risponde in modo viscerale, forse ingenuo, di sicuro
sincero: “Ho perso la fede, pensai, nel cercare di capire le cose, le varie voci che ogni
giorno, nella mia scatola cranica, parlavano di alternative, contromanovre,
divisioni, istruzioni, indicazioni. Tutte le voluttà interiori di linguaggio e
stile. E vivo la vita di un animale e trasfiguro le mie infanzie, al plurale
perché non faccio che ripetere senza mai passare oltre, un circolo vizioso
piuttosto che una spirale”. Tutti temi e argomenti che appariranno con
frequenza regolare in seguito, magari in chiave meno autobiografica, comprese
le tracce che Jim Harrison dissemina rimescolando le sue letture (Steinbeck,
Keats, Rimbaud, Dostoevskij, Thoreau, Miller: roba forte) e le sue influenze
popolari, riconoscendo tra l’altro l’immaginifica forza della Thunder Road di Robert Mitchum,
qualche anno prima di Bruce Springsteen e di Born To Run. La coincidenza non è
casuale perché Swanson alias Jim Harrison scriveva: “Dopo, ma nemmeno tanto dopo, uno avverte orribilmente la
mancanza di questo senso della vita. Del tutto assente quando non siamo che
ghiandole collegate a un piccolo cervello animalesco. Amare come se fossimo
creature immaginarie, pure, geometriche, diamanti da osservare attraverso molte
limpide sfaccettature, ma pur sempre umane; la gola si stringe, le ghiandole
lacrimali hanno il sopravvento, il mondo è di nuovo tangibile e fresco, e noi ci
ricaschiamo ancora e ancora, inseguendo ostinatamente un sogno bello ma
insensato”. Tra le righe (ma nemmeno tanto, nel finale) sembra il prologo di Un
buon giorno per morire. La strada è lì che aspetta.
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