Devin Jones è stato lasciato dal suo primo amore
(insopportabile) e per ovviare all’ossessivo pensiero dell’abbandono decide di
trascorrere un’estate a lavorare in un parco di attrazioni nella Carolina del
Sud. Una volta entrato a Joyland verrà chiamato Jonesy e la sua specialità sarà
impersonare Howie, il cane che è la mascotte del luna-park, indossando un
costume che è una tortura. Oltre a una nutrita schiera di pittoreschi
personaggi, Joyland è abitato dal fantasma di Linda Gray, uccisa e abbandonata
della galleria degli orrori, ed è l’unico elemento fantastico della storia.
Stephen King ha una leggerezza tutta sua quando si avvicenda dal danse macabre
e si possono perdonare le ripetizioni, qualche caduta di tono, una cerca
meccanicità perché Joyland si sviluppa “proprio come una canzone” o meglio
attingendo a un immaginario speciale, che meriterebbe un saggio a parte. Big
Joe Turner e Johnny Otis suonano o hanno suonato nell’auditorium di Joyland,
Madame Fortuna o Rozz o Rozzie (i nomi variano con l’umore e le
interpretazioni) cita Good Vibrations dei Beach Boys, poi vengono richiamati
all’appello in un modo o nell’altro Jimi Hendrix, John Lennon, gli Hollies, i
Beatles e gli Stones. In una ghost story non potevano mancare (e si rivelano
fondamentali) i fantasmi più rilevanti della storia del rock’n’roll, la voce di
Jim Morrison nei Doors ed Elvis che all’epoca di Joyland (siamo nel 1973) non
ancora lo spettro più famoso d’America. A proposito di canzoni: la prima che
viene citata è Stay With Me dei Faces ed è la chiave per entrare nella
storia: per inciso, i Faces avevano un catalogo inarrivabile di pop song
suonato con tutta l’energia e la forza di una rock’n’roll band e i riferimenti
musicali rendono Joyland una specie di “series of dreams” dylaniana o una
circus song springsteeniana. Il tema è chiaro fin dall’inizio e il tono è ben
presto dettato dall’avvertenza che Jonesy riceve dal suo factotum, Fred Dean:
“Qui improvvisiamo di più. Siamo ancora legati allo spirito delle fiere di un
tempo. Forza, cerca di capire che cosa ne pensi. Anzi, meglio, che cosa provi”. E’ quello che chiede
Stephen King mentre si entra in Joyland: di sentire qualcosa, più che di
leggerlo. Per questo anche se comincia come una rock’n’roll fantasy e poi si
sviluppa con la luce di un b-movie, con un gran finale che è a sua volta un
cliché, va aggiunto che l’intenzione arriva intatta fino in fondo all’epilogo.
A saldo di tutte le ironie possibili, è come bere una birra fresca nel giorno
più caldo dell’estate ed è anche legittimo non chiedere di più. Ciò non toglie
che piccoli valori come amicizia, lealtà, sincerità, generosità che a Joyland hanno un senso e nel
resto del mondo sono stati dimenticati, per far spazio a una non inedita
brutalità, riempiano di nostalgia la storia di Stephen King rendendola una
favola moderna capace persino, en passant, di non dimenticare il sassofono di
Clarence Clemons nelle battute conclusive. Tempo di lettura: una notte con
temporale (obbligatorio), tuoni e fulmini compresi nel prezzo.
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