Nella visione di Jerome Charyn, Metropolis alias New York City, non è la trascrizione di un’idea di città, ma un ritratto sinuoso, che serpeggia nelle strade e nei bassifondi, rastrellando storie e linguaggi nella forma stessa della pagina scritta. Pur sottolineandone a più riprese il carattere cosmopolita, caotico e in eterno movimento, Jerome Charyn non si lascia ingannare dalle apparenze e punta subito l’accento sul DNA conflittuale di New York, ricordando, nell’anticamera di Metropolis, l’esperienza brutale di Ellis Island, l’approdo dell’emigrazione europea: “Nessuno avrebbe potuto sentirsi sicuro in una stanza così, grande come l’America. Io, di certo, me la sarei fatta addosso. Non per paura del centro, ma per la disperazione che emanava una stanza dove non riuscivi più a definire te stesso”. L’identità consumata su quella soglia è diventata l’humus su cui è germogliata Metropolis così come la conosciamo perché “spesso l’anima di una città si rispecchia in quella dei suoi abitanti. Ciò è particolarmente vero in una città di immigrati come New York, dove intere popolazioni giunsero su navi fantasma, attraversando una cattedrale di mattoni mentre i vestiti venivano segnati col gesso e le teste ispezionate alla ricerca di pidocchi; e se il paese li faceva entrare, lavoravano sodo per mantenersi, facevano figli, facevano soldi e morivano nella lotta per diventare americani”. Da quel momento il sogno delle opportunità si spalanca in tutte le direzioni e seguendo un percorso personalissimo (“Scrivo questo libro da quando avevo cinque anni, immagazzinando i ricordi nella mia pelliccia, come un orso nel Bronx”) Jerome Charyn riesce a vedere che, oltre l’esplosione architettonica, dalla Loisaida ad Alphabet City, “la città tesse le sue leggende come un fantasma collettivo. Gli eroi (e i cattivi) irrompono nella nostra coscienza, ci svegliano da un sonno inquieto e controllano le nostre vite... Finché nella nostra mente non germina un’altra messe di eroi”. I protagonisti del self-made assumono le sembianze della Material Girl di Madonna e incrociano ancora, inevitabilmente, gli eccessi urbanistici, quando “il figlio di un costruttore di periferia, uno con la faccia da neonato, costruisce un hotel tra la Gran Central Station e il Chrysler Building e diventa Donald Trump”. Le estremità delle radici che l’hanno portato a diventare un presidente degli Stati Uniti vanno cercate proprio qui, perché come scriveva Martin Gottlieb, “invece di conformarsi alla legge di gravità di Newton, Manhattan danza ai ritmi di una variazione delle leggi di Einstein secondo cui tempo, materia e energia interagiscono con il denaro”. Jerome Charyn riecheggiando voci e impressioni di natura eterogenea che comprendono Henry Roth e Scott Joplin, sindaci e gangster, è ancora più preciso e ricorda, a nome degli abitanti di New York, che “non abbiamo rinunciato all’abitudine di affollare i mercati, comprare e vendere, vendere e comprare. Siamo una razza che baratta. Siamo nati con questo dono. Ce l’abbiamo nel sangue. La città stessa è un unico gigantesco mercato. Non puoi fare dieci passi senza imbatterti in qualcosa che abbia a che fare con il commercio. È nel fumo e nella fuliggine che respiriamo. Siamo tutti imprenditori potenziali, sempre alla ricerca di un buon affare nella terra di chi vende e di chi compra”. Lo snodo centrale di Metropolis porta Jerome Charyn a rileggere l’essenza della pop art, con Julian Schnabel nel ruolo di anfitrione. Il legame con New York è doppio e ambiguo non solo “perché il grande segreto americano del ventesimo secolo è che tutti gli uomini e tutte le donne sotto sotto sono degli artisti”, ma soprattutto perché il mercato dell’arte ha celebrato e sublimato la rapacità economica e così, spiega Jerome Charyn, “come in tutti gli spettacoli, l’interesse e il fasto sono enormi. L’arte è superadorata. Quell’adorazione genera il denaro e idolatria per i manufatti, non come elementi culturali che ci parlano di noi stessi, che dipingono la nostra psiche e ci smascherano in modo profondo, ma come eventi pseudomagici, totem frammisti a simboli del dollaro. I prezzi delle opere d’arte sono determinati dall’incontro tra la scarsità reale o indotta e il desiderio, puro, irrazionale, e nulla è più manipolabile del desiderio”. Questa è Metropolis: una dichiarazione d’amore e un segnale di pericolo, un tuffo verso i ricordi dell’infanzia e uno sguardo nel futuro, dove c’è “la New York moderna, urla e silenzio insieme. È una città senza barriere del suono. I rumori echeggiano ovunque e tornano, rimbalzando, nel silenzio”. Era il 1986, funziona ancora così.
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