Zero
K è
la radice quadrata di una love story, “un assurdo moto di amore”
che alimenta una reazione a catena di visioni, una sfida che infine
si trasforma in “una sontuosa finzione”. L’atmosfera onirica,
precisa, gelida, sublime ed estrema imposta da Don DeLillo “lascia
che la lingua rifletta la ricerca di metodi sempre più oscuri, fino
ad arrivare a livelli subatomici” e concede soltanto una scelta al
lettore, che può decidere se Zero
K è
“un sogno ben disciplinato” o la follia di un incubo “ai
margini estremi del plausibile”, e un po’ oltre. La storia si
condensa attorno alla decisione di Ross Lockhart alias Nicholas
Satterswaite e della (seconda) moglie Artis di ibernarsi, nella
speranza di ovviare alle malattie e per estensione per nascondersi e
per rimettersi al tempo seguendo “una promessa che gode di maggiori
garanzie rispetto a tutti gli ineffabili aldilà delle religioni
organizzate di questo mondo”. L’elemento criogenico,
l’ambientazione scientifica, i dilemmi filosofici, circostanze,
congetture, conseguenze riportano a La
stella di Ratner ma
nello svolgersi della sostanza di Zero
K “in
termini puramente umani, stiamo parlando di un uomo che non se la
sente di vivere senza la sua donna”. Dovrebbe essere semplice, solo
che “quando vediamo qualcosa a noi arriva solo una parte di
informazioni, una sensazione, un’idea vaga di quello che realmente
si può vedere” e “sono solo indizi. Il resto è una nostra
invenzione, il nostro modo di ricostruire ciò che è reale”.
Marito, moglie (non-madre), padre e figlio che si incontrano in un
non-luogo chiamato, con un’ironia impercettibile, Convergence, a
confabulare tra loro e con misteriosi interlocutori di non-vite e, di
riflesso, di non-morti. Tutto diventa dialogo, tono “prima e terza
persona insieme”, contraddizione, paradosso e una voce che
confessa: “Cerco di sapere chi sono. Ma sono quello che dico e non
è quasi niente. Penso di essere qualcuno. Ma sto solo dicendo delle
parole. Le parole non se ne vanno mai”. E’ la lingua ad aprire
“una distorsione della luce”, quella che, nella scrittura
pulsante di Don DeLillo, ha una frequenza ritmica serrata, sincopata,
pari e dispari contemporaneamente. Il titolo, beffardo, lascia la
porta aperta all’invenzione di un non-romanzo, alla sensazione
continua di essere “caduti fuori dalla storia”, alla possibilità
di scoprire che il narratore “ogni tanto improvvisa, gonfia le
storie, le allarga, le porta al limite in un modo che può anche
mettere alla prova le cose in cui credi” e comunque, fino in
fondo, Zero
K è
una professione di fede per “le parole intatte”, che non sono
così facili da ritrovare, e per estensione per la letteratura come
prova, rituale, esperienza. L’unico (e forse, l’ultimo) modo per
accorgersi che, come dice Don DeLillo parafrasando Sant’Agostino,
“il tempo è multiplo, il tempo è simultaneo. Questo momento
succede, è successo, succederà”, e sono soltanto le “piccole
cose che definiscono ciò che siamo”, quelle che pesano o
valgono Zero
K,
e che rivelano “quanto siamo fragili, non è vero?”, e la vera
trama è tutta nella domanda. Resta la descrizione di un lungo
crepuscolo su Manhattan che cala come il perfetto sipario sul finale
di un romanzo straordinario.
Aspettavo questo tuo commento, ho finito da poco Zero K e ci sto pensando, quello che dici mi aiuta nella riflessione.
RispondiEliminaGrazie, sono curioso di sentire il tuo parere.
RispondiEliminaquando e se riuscirò a scriverne qualcosa che abbia un senso ti manderò il link :-) ciaoo
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