lunedì 7 novembre 2016

Don DeLillo

Zero K è la radice quadrata di una love story, “un assurdo moto di amore” che alimenta una reazione a catena di visioni, una sfida che infine si trasforma in “una sontuosa finzione”. L’atmosfera onirica, precisa, gelida, sublime ed estrema imposta da Don DeLillo “lascia che la lingua rifletta la ricerca di metodi sempre più oscuri, fino ad arrivare a livelli subatomici” e concede soltanto una scelta al lettore, che può decidere se Zero K è “un sogno ben disciplinato” o la follia di un incubo “ai margini estremi del plausibile”, e un po’ oltre. La storia si condensa attorno alla decisione di Ross Lockhart alias Nicholas Satterswaite e della (seconda) moglie Artis di ibernarsi, nella speranza di ovviare alle malattie e per estensione per nascondersi e per rimettersi al tempo seguendo “una promessa che gode di maggiori garanzie rispetto a tutti gli ineffabili aldilà delle religioni organizzate di questo mondo”. L’elemento criogenico, l’ambientazione scientifica, i dilemmi filosofici, circostanze, congetture, conseguenze riportano a La stella di Ratner ma nello svolgersi della sostanza di Zero K “in termini puramente umani, stiamo parlando di un uomo che non se la sente di vivere senza la sua donna”. Dovrebbe essere semplice, solo che “quando vediamo qualcosa a noi arriva solo una parte di informazioni, una sensazione, un’idea vaga di quello che realmente si può vedere” e “sono solo indizi. Il resto è una nostra invenzione, il nostro modo di ricostruire ciò che è reale”. Marito, moglie (non-madre), padre e figlio che si incontrano in un non-luogo chiamato, con un’ironia impercettibile, Convergence, a confabulare tra loro e con misteriosi interlocutori di non-vite e, di riflesso, di non-morti. Tutto diventa dialogo, tono “prima e terza persona insieme”, contraddizione, paradosso e una voce che confessa: “Cerco di sapere chi sono. Ma sono quello che dico e non è quasi niente. Penso di essere qualcuno. Ma sto solo dicendo delle parole. Le parole non se ne vanno mai”. E’ la lingua ad aprire “una distorsione della luce”, quella che, nella scrittura pulsante di Don DeLillo, ha una frequenza ritmica serrata, sincopata, pari e dispari contemporaneamente. Il titolo, beffardo, lascia la porta aperta all’invenzione di un non-romanzo, alla sensazione continua di essere “caduti fuori dalla storia”, alla possibilità di scoprire che il narratore “ogni tanto improvvisa, gonfia le storie, le allarga, le porta al limite in un modo che può anche mettere alla prova le cose in cui credi” e comunque, fino in fondo, Zero K è una professione di fede per “le parole intatte”, che non sono così facili da ritrovare, e per estensione per la letteratura come prova, rituale, esperienza. L’unico (e forse, l’ultimo) modo per accorgersi che, come dice Don DeLillo parafrasando Sant’Agostino, “il tempo è multiplo, il tempo è simultaneo. Questo momento succede, è successo, succederà”, e sono soltanto le “piccole cose che definiscono ciò che siamo”, quelle che pesano o valgono Zero K, e che rivelano “quanto siamo fragili, non è vero?”, e la vera trama è tutta nella domanda. Resta la descrizione di un lungo crepuscolo su Manhattan che cala come il perfetto sipario sul finale di un romanzo straordinario. 

3 commenti:

  1. Aspettavo questo tuo commento, ho finito da poco Zero K e ci sto pensando, quello che dici mi aiuta nella riflessione.

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  2. Grazie, sono curioso di sentire il tuo parere.

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  3. quando e se riuscirò a scriverne qualcosa che abbia un senso ti manderò il link :-) ciaoo

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