Quando Un
poeta legge un pittore la
domanda è: “Come mai troviamo così difficile dare un senso a
quello che vediamo?”, e il tentativo di rispondere in Edward
Hopper,
è in una disgressione geometrica, filosofica e, soltanto alla fine,
narrativa. Mark Strand distingue trapezi, piani, e linee facendo
notare come “l’uso reiterato di alcune figure geometriche, che
hanno un’influenza diretta sulla reazione che l’osservatore
probabilmente avrà” è una prassi con cui “una geometria
pittorica stimola un’azione opposta a quella che la narrazione
dispone”. In questa contraddizione di termini c’è gran parte del
fascino della pittura di Edward Hopper, perché come nota Mark Strand
osservando uno dei suoi dipinti più famosi, Nighthawks,
“un punto di fuga non è soltanto il luogo in cui s’incontrano
linee convergenti, è anche il luogo in cui noi cessiamo di essere,
la fine di ciascuno dei nostri viaggi individuali”. Anche nei
soggetti ricorrenti in Edward Hopper, “le strade e le ferrovie, i
luoghi di passaggio e quelli di sosta temporanea, in termini più
generali, i luoghi del viaggio”, la dimensione è ambivalente e
Mark Strand sa intravedere in quel “mondo colto al volto, di
passaggio”, “immobile” nella sua essenzialità, una visione
“senza di noi; non solo un luogo che ci esclude, ma un luogo
svuotato di noi stessi”. E’ davvero lì, nell’istante ricavato
tra la luce e le ombre, che la grandezza del poeta e del pittore
s’incontrano e quei “momenti del mondo reale, di cui noi tutti
abbiamo esperienza, sembrano per mistero trasportati fuori dal tempo.
Ad esempio il mondo visto di sfuggita da un treno, o da un’auto in
corsa, rivelerà la scheggia di una storia che forse cercheremo, o
forse no, di completare, ma i cui echi suggestivi ci commuoveranno
comunque, rendendoci consapevoli della natura frammentaria, fuggitiva
persino, delle nostre vite”. I frammenti di stanze, finestre, corpi
e paesaggi e tutto quello che resta sospeso lasciano aperte molte
ipotesi per l’osservatore, e Mark Strand ricorda come “quello che
sentiamo sarà soltanto nostro. La negazione del viaggio, insieme al
nostro senso di perdita e alla nostra assenza transitoria,
prospererà”. Eppure, la narrazione dei quadri è rispettosa,
limitata alle impressioni e alle forme, senza l’aggiunta di
particolari speculazioni, deduzioni o divagazioni. L’arte di Edward
Hopper rimane “un universo a sé stante in cui il suo mistero
rimane intatto”, è il suo riflesso a colpirci, così come “il
silenzio che accompagna il nostro guardare sembra accrescerci. Ci
turba. Vogliamo andare oltre. E qualcosa ci spinge a farlo,
nell'attimo stesso in cui qualcos’altro ci costringe a restare
fermi. Ci pesa addosso come solitudine. La distanza tra noi e ogni
altra cosa aumenta”. Quella racchiusa nelle due dimensioni della
pittura di Edward Hopper è “una lacuna ombreggiata non tanto dagli
eventi di una vita vissuta quanto piuttosto dal tempo prima della
vita e dal tempo susseguente”, ovvero un momento magico protratto nel
tempo e di cui “noi siamo i privilegiati testimoni”. L’effetto
porta alla dimensione superiore, dove la considerazione inevitabile
tocca “il problema dei nostri rapporti con il tempo: cosa ce ne
facciamo del tempo e cosa il tempo a noi?” Se la domanda iniziale
toccata più il pittore, quella conclusiva è di pertinenza del
poeta: se in Edward Hopper intravede quella “struttura formale in
grado di contribuire a normalizzare l’arcano come elemento
inspiegabile delle nostre vite”, la risposta tocca ancora a
chi guarda, incantato, perché, “noi pure desideravamo qualcosa
oltre il mondo a noi noto, oltre noi stessi, oltre quanto sapevamo
immaginare, qualcosa in cui nondimeno potessimo riconoscerci”.
Questa è l’arte, questa è la poesia.
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