L’America
all’alba di Pearl Harbour, l’America di oggi, trovate le
differenze. Adesso come allora, “gli appetiti sono nell’aria” e
l’ambivalenza della guerra, che “dà agli uomini qualcosa da
fare, in modo puro e semplice”, si manifesta a più livelli:
consolida lo status quo (“Non è il momento adatto per la
sovversione”), celebra le nuove opportunità, e sfodera una
prospettiva non del tutto inedita, ma sempre efficace visto che “la
gente sembrava condividere un nuovo senso di lealtà. Tutto era
nuovo. Molti sembravano la personificazione della sorpresa. Alcuni la
personificazione della rivelazione”. E’ così che nel dicembre
1941 l’illusione del melting pot viene marchiata a fuoco
dall’inizio delle ostilità nel Pacifico. L’isteria razziale e
razzista parte dai giapponesi e coinvolge tutti: cinesi
(soprattutto), tedeschi, russi nell’immediato futuro, italiani,
messicani, americani. E’ un nervo malato che James Ellroy lascia
scoperto con somma disinvoltura ed è l’energia crudele che governa
l’atmosfera di quella Los Angeles che “andava avanti a insonnia,
sigarette e liquori”. Al parziale elenco di vizi e disturbi
(pubblici e privati, nessuna distinzione) vanno aggiunti additivi
chimici e naturali, aborti clandestini e morali cattoliche,
rastrellamenti e confische, tangenti e protezioni, intrighi e quinte
colonne e, last but not least, una lunga teoria di omicidi. Le
“confluenze”, come le chiama James Ellroy portano sempre verso
“lo stato di polizia” del dipartimento di Los Angeles, dove
William Parker e Dudley Smith sono i due poli uguali e opposti di un
magnete ubriaco che attira legioni ed emana ambiguità. Sono tutti
“complici nella calunnia del sangue”, sospesi tra
l’autodistruzione e la sopravvivenza e nessuno è portato alle
confessioni. A Hollywood, dove chiunque finge di essere
qualcos’altro e l’imperativo è trasformare tutto in un film, la
verità resta una chimera. Ben presto, in Perfidia
le connessioni storiche e i riferimenti geopolitici, per quanto
espliciti e coerenti, hanno un peso relativo nelle singole parabole e
nella storia nel suo complesso, dato che “i collegamenti
circostanziali e le paranoie” vanno a sovrapporsi. James Ellroy è
spietato con i suoi personaggi che, a quanto pare, ricambiano e sono
puntualissimi a farsi trovare sulla soglia, in fallo, in pericolo,
sull’orlo del baratro e (anche) più in là. Gli uomini quanto le
donne (e spesso più le donne degli uomini) sono incontrollabili,
vagano impazziti inseguendo ambizioni, pulsioni, deduzioni, visioni e
intuizioni. Nonostante gli sforzi, il loro destino è segnato visto
che “la merda ha tendenza a schizzare in giro, soprattutto quando
si mescolano i soldi e l’ideologia”, ed è proprio quello che
succede dall’inizio alla fine di Perfidia.
James Ellroy è micidiale a spiegare come “come parole e pensieri
avvelenano lo spirito umano con un intento criminale sistematico” e
il finale pirotecnico è anche cupissimo perché poi la guerra
comincia davvero, gli uomini se ne vanno e il flusso inalterato del
racconto fissa soltanto “quel breve caos che si porta via vite
inutili e lascia i sognatori spietati liberi di ricominciare da
capo”. Qui, più che mai, il meccanismo delle reiterazioni di James
Ellroy segue una sequenza matematica, è esponenziale e ipnotico e
ossessionato dal ritmo, e il ritmo è randagio e swing con Paul
Robeson, Gene Krupa, Count Basie, Jimmie Lunceford, George Gershwin e
Glenn Miller (a cui deve il titolo). “Il tempo è un juke-box” e
Perfidia è
una monumentale, devastante valanga di ottocento pagine che rende
benissimo l’idea che “il mondo è un posto strano e incasinato”.
Nel dettaglio, la tempesta americana si nutre di benzedrina, idrato
di terpina, oppio, morfina e alcol come se piovesse per placare una
sete tragica, ma l’unica, vera droga resta il potere.
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