L’azzurro
è la sfumatura dominante nel Mattino domenicale di Wallace
Stevens. E’ ovunque, e non soltanto in L’uomo con la chitarra
azzurra, dove è richiamato in modo esplicito quello che Picasso
chiamava “il colore di tutti i colori”. La presenza del pittore
spagnolo in Mattino domenicale è poco più che simbolica
eppure rivela e rende luminosa la proclamata singolarità di Wallace
Stevens. Come scriveva René Char, “la grande rivoluzione delle
arti che ha compiuto praticamente da solo, è che il mondo è la sua
nuova rappresentazione”. Un indizio insolito e sorprendente che
annoda con un sottile e contorto filo (blue) l’immaginazione della
poesia e la realtà. In Anatomia dell’influenza,
Harold Bloom sosteneva: “Wallace Stevens sa di essere
diverso perché è consapevole che l’io e la poesia sono finzioni”.
L’apoteosi di questa definizione è proprio L’uomo con la
chitarra azzurra, in cui Wallace Stevens esordiva con questi
versi: “E’ la vita, e le cose come sono, questo ronzio della
chitarra azzurra”. Nessun dubbio: l’insieme delle apparenti
contraddizioni è una reazione a catena che permette lo sfoggio di
una lingua ricercata, modellata, concentrata sull’ipotetica
vibrazione delle parole, a sua volta una finzione nella finzione
perché “la poesia è il tema del poema, da ciò il poema ha
origine ed a ciò fa ritorno. Fra questi due estremi, fra origine e
ritorno, c’è un’assenza in realtà, le cose come sono. O così
pare”. La poesia di Wallace Stevens è un’idea di ritmo, sapendo
che la “musica è dunque palpito, non suono”, che trova poi la
sua espressione paradossale negli alberi intelligenti, nelle
“frontiere del reale”, con “l’aria buona” e infine in
“un’orgiastica ronda di creature”. A margine di Mattino
domenicale, Wallace Stevens spiegava che “la vita è una
questione di gente e non di luoghi. Ma per me la vita è una
questione di luoghi, e questo è il problema”. Il genius loci va
cercato individuato, di nuovo accanto a L’uomo con la chitarra
azzurra: “E’ la terra, per noi nudo deserto. Non esistono
ombre. La poesia, la musica trascende e tiene luogo del cielo vuoto e
dei suoi inni. Il loro posto prendiamo noi nella poesia, e nelle
ciarle della tua chitarra”. Poco più in là, noncurante di
possibili ridondanze, Wallace Steves raddoppia la dose: “Un’aria
ci trascende quali siamo, ma nulla cambia la chitarra azzurra: nel
suono stiamo come nello spazio, senza che nulla cambi, eccetto il
luogo di cose come sono, solo il luogo come le suoni sulla tua
chitarra, luogo oltre il cerchio delle mutazioni, in finale atmosfera
percepito; per un istante ultimo, nel modo che il pensiero dell’arte
sembra ultimo quand’è l’idea di dio folta rugiada, il suono è
spazio. La chitarra azzurra si fa luogo di cose come sono, e
simmetria dei sensi delle corde”. Il mantra del Mattino
domenicale, “le cose come sono, come sono, come saranno ancora
a lungo andare”, è un refrain che induce a riflettere a fondo
sulla sovrapposizione di realtà e poesia che Harold Bloom provava a
illustrare con una specie di equazione letteraria: “La fede
definitiva di Stevens è la finzione con la piacevole certezza che
ciò in cui si crede non è vero. Questo non inficia però la verità
di ciò di cui si è certi”. La fonte di questa autorevole e
criptica definizione è anche l’unica possibile risposta, e va
trovata nel poema di Wallace Stevens, dove dichiara, senza
possibilità di fraintendimenti: “Io e la chitarra azzurra siamo
una cosa unica” ed è da lì che si accordano i voli pindarici:
“Getta via le formule e le lampade, e di ciò che tu scorgi nelle
tenebre, di’ che è questo o che è quello, senza usare i vocaboli
corrotti. Come potrai avanzare in quello spazio, se dello spazio
ignori la follia, se ne ignori le allegre procreazioni? Getta via le
tue lampade. E che nulla stia tra te e le parvenze che tu assumi
quando alle cose si rompe la crosta”. Se nelle Credenze
d’estate (“La direzione qui si ferma e tutte le cose alla sua
volta: quel che esiste, quel che è estremo accettiamo come giusto,
nostro bene e alveare alto fra gli alberi, miscuglio di colori ad una
festa”) s’insinua l’influenza di Shakespeare, Wallace Stevens
prova e riprova a spiegare le sue intenzioni: “Voglio confrontare
la natura come si confrontano due leoni, il leone nel liuto che si
misura con il leone imprigionato nella pietra. Voglio, come uomo di
immaginazione, scrivere poesia che abbia tutto il potere di un mostro
uguale in forza al mostro che scrivo. Voglio che l’immaginazione
dell’uomo sia completamente adeguata di fronte alla realtà”. Tra
le Liriche sparse, quel suo protagonista, lo raffigura
“in un tal mondo, dove non c’è altro senso, il vero stesso è
calma, il vero stesso è estate e notte, è l’uomo che s’attarda
lassù chino leggendo”. Ancora nelle pieghe di L’uomo dalla
chitarra azzurra aveva avvisato che “è una forma descritta ma
difficile”, forse più facile, interpretazione dopo
interpretazione, da vedere come in un sogno.
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