La storia dell’amicizia tra John Wheelwright e Owen Meany si dipana tra il 1953 e 1987, con un continuo saltare attraverso gli anni, perché “la memoria è un mostro: tu dimentichi, essa no. Archivia le cose, ecco tutto. Le conserva per te, o te le nasconde, e le richiama, per fartele ricordare, a sua volontà. Credi di avere una memoria. Ma è la memoria che ha te”. Il presupposto, “brillante ma assurdo” è che Owen Meany, minuscolo rappresentante di una famiglia di cavatori di granito (un dettaglio da non dimenticare, fino in fondo), con una voce altisonante (parla in maiuscolo), con un colpo sfortunato inferto a una palla da baseball uccide la madre di John Wheelwright. Tutto Preghiera per un amico è un gioco a incastri dove, aneddoto dopo aneddoto, dilaga un mondo di personaggi in ebollizione. Owen Meany è l’outsider per eccellenza, fuori misura, fuori posto, eccessivo, da un certo punto di vista coerente alla storia, ma assolutamente eccentrico nello sviluppo, dove scortica la rappresentazione di Canto di Natale, si scontra con le autorità del college (viene espulso per via delle sue cartoline precetto false, utili per farsi servire da bere), si arruola nell’esercito dove sogna la data e circostanze precise della propria morte. Roba sufficiente per tre romanzi. Sullo sfondo, la società americana è proiettata con somma e irriverente ironia su uno schermo credibile nel conflitto con tutte l’autorità delle scolastiche ed ecclesiastiche e, infine, militari. Va da sé che, una dopo l’altra, vengono messe alla berlina. Come una voce della coscienza incontrollabile, Owen Meany ha comunque le parole giuste e il legame con John è un rapporto che va oltre il tempo e l’amicizia. Insieme scoprono il passato misterioso della madre e vivono gli “anni vietnamiti”, un’epoca di divisioni e fratture per tutti, anche per loro. Mentre John Wheelwright si trasferisce in Canada per proseguire gli studi e diventare a sua volta professore di lettere, Owen Meany si arruola con l’intenzione di andare a combattere in Vietnam. Prende forma così una storia americana parallela, con l’aggiornamento quotidiano delle truppe inviate e dei caduti tornati in un sacco di plastica, con il ruolo via via più invadente e determinante della televisione che John Irving non teme di segnalare più volte: “È quando ti fa assistere al massacro di eroi nel pieno del loro fulgore, a una strage di innocenti, che la televisione assurge alla sua deplorevole grandezza”. In quei frangenti, all’interno dell’amicizia di John e Owen si inserisce anche Hester a rappresentare l’altra parte, quella che cantava Four Strong Winds e coltivava l’idea illusoria di “rifare il mondo” che invece porterà, di nuovo e ancora e ancora agli anni di Reagan, delle guerre spaziali e della proliferazione nucleare e dello scandalo Iran-contras, perché cambiano i tempi ma resta qualcosa che “è tipico della politica americana: non essere chiaro, sii deciso”. Lo stile sfrenato di John Irving è torrenziale e pare non avere limiti. Di sicuro, non ha alcun timore a compiere balzi senza rete sapendo che “un buon libro è sempre in moto: dal generale al particolare, dalle parti al tutto e viceversa, avanti e indietro”. È proprio quello che succede in Preghiera per un amico dove soggetti inanimati (persino un manichino) valgono quanto le persone e i loro pensieri perché “la logica è relativa” e nella miriade di riferimenti letterari sparsi, da Graham Greene a Robert Frost, passando per Il grande Gatsby e nel continuo infilarsi in digressioni immaginifiche, la scrittura è avvolgente, ipnotica, tanto che la trama (fittissima ed elaborata, si sarà capito) tende spesso a sfuggire. Al contrario il finale, in puro John Irving style, è pirotecnico, per quanto previsto nei minimi dettagli da Owen Meany. E ha ragione Stephen King quando dice che Preghiera per un amico “è una rara creazione dell’universo ormai esausto del romanzo di fine Novecento”. Notevole.
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