A un certo punto, tra le numerose storie che L’ospite d’onore raduna, Joy Williams ammette, in maiuscolo, che “i presupposti di amore e autoconservazione sono inconciliabili”. Da questo nocciolo ineluttabile, i suoi racconti toccano corde sensibili, sfiorano la mutevole sensazione del tempo che scorre inesorabile e la consapevolezza che “il mondo non distingue tra un tipo di dolore e l’altro. È la tentazione di credere che sia così a tenerci incatenati”. È il motivo per cui le short story di Joy Williams sono pervase da “una squisita sensazione di irrequietezza”, come capita alla protagonista di Diritto di visita. Una condizione determinata dal termine delle stagioni, dallo sfumare dell’infanzia e dell’adolescenza o da una transizione, spesso violenta e repentina, che porta le vite dei protagonisti ad arenarsi, come balene sulle spiagge. Gradualmente, i meccanismi abituali di Joy Williams risalgono in superficie e si notano nello scorrere dei nomi, nei gesti, nelle case e degli ambienti, mentre tutto intorno le cose prendono pieghe impreviste, si spezzano o semplicemente si consumano. Lo stile è fatto di brevi frasi che scattano a raffica, passando dalla prima alla terza persona, senza distinzione nel tono, che resta secco e incisivo, e non disperde una parola che sia una. Con un gusto un po’ da voyeur, Joy Williams intercetta frasi e dialoghi per strada con un orecchio allenato, ma le colloca in una dimensione speciale, descritta così in Ossa di balena: “Esiste un certo tipo di conversazione che si sente solo da ubriachi ed è come un sogno, impregnato di umorismo, senso di minaccia e valore, un valore profondo. Ed è diverso anche il modo in cui si assiste a qualcosa, da ubriachi. È come indossare una maschera da sub, infilare la testa sott’acqua e osservare cosa c’è sul fondo, il cuore confuso e innocente delle cose”. L’ospite d’onore lascia sentire le voci intrappolate “in un mondo di caos e sentimenti contrastanti” (Il matrimonio), arrivando a considerare il fatto che “forse la comprensione era più importante dell’amore, e forse la forma più alta di comprensione era la comprensione di se stessi, delle proprie motivazioni, dei propri desideri delle proprie capacità”. Con l’amara certezza, come succede in Chimica invernale, che “l’amore poteva avere molti inizi, ma una sola fine. Qualcuno era destinato a farsi male”. Nell’insieme L’ospite d’onore condensa l’intera fragilità dei uomini e donne, e quando i personaggi piangono, piangono davvero. Detto questo, Joy Williams mostra tutta una particolare empatia per loro, anche se non gli risparmia nulla: “bevono troppo”, sono ipersensibili, spesso indifesi o semplicemente sconfitti. Eppure in ogni singola storia si può trovare uno scampolo di umanità, una piccola scintilla, non fosse altro che una felicità “spuntata fuori dal nulla, per caso” (Fughe). Secondo Joy Williams, un racconto è “una superficie chiara con molto disagio sotto” e il mood malinconico comprende alcuni temi ricorrenti che punteggiano L’ospite d’onore in tutti i suoi episodi: il legame tra madre e figlia e i rapporti coppia (per qualche motivo i personaggi di Joy Williams procedono sempre a due a due), gli aspetti surreali, notturni e onirici (L’escursione, Congresso o Lu-lu, quasi una sequenza di un film di David Lynch), l’onnipresente oceano sul versante atlantico (“Non vedevamo il mare, ma eravamo consapevoli della sua presenza perché ovviamente era tutto intorno”) e il dolore in tutte le sue declinazioni, a partire da perdite tragiche e irrimediabili (Marabù). I racconti di Joy Williams hanno qualcosa di speciale, pur non avendo niente di particolare: sarà il taglio delle storie (che non fanno sconti a nessuno), saranno i dialoghi o le parole che assumono “la forma di animali pazienti, minacciosi” o quella luce crepuscolare che li sottolinea, ma alla fin fine con il mare, la madre, la notte, la morte bisogna tornare ancora all’illuminazione di Harold Bloom, che concentra tutta la letteratura americana in questi quattro elementi. Per Joy Williams sono una costante matematica e così è vero che L’ospite d’onore (un libro prezioso) contiene “la quintessenza del racconto americano”, parola di Don DeLillo.
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