Il mare (“Il peso del mare uccide: te lo porti dietro per sempre. Spostalo, smistalo; te lo porti dietro, madre blu, per sempre”), la terra (“La terra è saliva, ciò che s’attacca come colla fresca. È per camminarci, è per distendersi, un lenzuolo sicuro per la risurrezione. La terra è quel che viene dopo di te, seguendo i tuoi passi, contandoti i denti, padre e figlio, padre e figlio del figlio, un coltello, un seme, piantati profondi quanto basta”), la luce (“La luce dalle stelle fa l’ombra uguale al corpo, la luce dal fuoco la fa più grande, là, sotto la parola”), l’incerto destino (“La polvere, com’è certo, risorge, allora risorgeremo, e ci raduneremo nel vento, nella nuvola, e saremo il loro effluvio, una cascata nella cascata del mondo”) e un’intera visione viene ricondotta nei versi di Breve storia dell’ombra, un’accurata ed estesa antologia che racchiude tutta l’esperienza poetica di Charles Wright, comprendendo mezzo secolo di versi, dal 1975 a oggi. Una tensione costante verso il sublime, rintracciato e osservato con assiduità nella natura, cercando con convinzione di dimostrare che “in tutta la bellezza c’è qualcosa d’inumano, qualcosa che non si può sapere: nel nerbo e nel midollo d’ogni radice, d’ogni fiore; nella vena di sangue d’ogni roccia; nel polmone nero d’ogni nuvola, il seme, il seme infinitesimale che ti condanna, che ti rende un nulla, si nutre dei suoi confini e cresce”. Gli estremi richiamati con insistenza sono Dante e William Blake, maestri indiscutibili di ombre e guadi: Charles Wright deve aver pensato proprio a loro quando ha scritto che “il mondo è un libro magico, e noi le sue frasi. Lo leggiamo e leggiamo noi stessi. Si chiude, si volta pagina e non si torna indietro, restituiti a ciò che eravamo un tempo prima di diventare ciò che siamo. Ecco la storia che racconta il mondo, ecco come finisce”. La forma della poesia di Charles Wright è costante, un segmento che si ripropone lungo una linea precisa, senza sbavature, senza deviazioni: ineccepibile nell’enunciazione, ma i temi sono salti sorprendenti dalla descrizione della wilderness all’introspezione fino alla levigatura maniacale dei dettagli. Un metodo svelato in una poesia notturna dato che, “come la memoria, la notte è gentile con noi, cancella gli inutili dettagli”. Lo stupore è facile, perché “ogni parola, come uno scrisse una volta, contiene l’universo”. E c’è qualcosa di aulico, metafisico nelle poesie collezionate in Breve storia dell’ombra, un rapporto intimo, viscerale con le parole, eppure un modo distaccato, a volte persino leggiadro di affrontarle con uno stile rigoroso nella metrica, eppure fluido e sorprendente dato che, come dice il poeta, “anche se le situazioni e i concetti sono ampi, spero che le divagazioni portino nei pressi di casa”. L’indirizzo resta sconosciuto perché “ognuno è il suo inizio; ognuno, in sé, una fine” e alla fine anche Charles Wright diventa a sua volta un traghettatore che mostra la direzione, con un’indicazione sibillina, senza svelarla: “Cercateci presto sull’altra sponda dove la strada smotta, svoltano nella città invisibile”. In mezzo ci sono enormi silenzi, una componente irrinunciabile nelle allegorie di Charles Wright che, come ammette in Figliastri del Paradiso: “Con o senza lingua, c’è sempre spazio per un’altra vita. Abbiamo scaricato questa in un’incertezza inquieta, facendo un po’ di questo e un po’ di quello, mentre il tempo, disfattore vero, ci erode la punta delle dita, lasciandoci la memoria e la sua mossa finale, carta del cielo sfocata nella luce nera”. Dalla seconda metà del ventesimo secolo, non sono molti i poeti che vantano questa artigianale raffinatezza nel lavorare le parole, e sono ancora più rari quelli che l’hanno fatto con la discrezione e l’umiltà di Charles Wright che in Riunione confessa: “Scrivo poesie per liberarmi, far penitenza e sparire dall’angolo alto a destra delle cose, per rendere grazie”. Un grande poeta, un libro prezioso.
Nessun commento:
Posta un commento