Con il passare del tempo, si è creata attorno a Johnny Cash un’aura mitologica, frutto di una vita al limite associata all’indiscutibile importanza assunta nella cultura americana, e non. Su molte ricostruzioni è necessario fare un po’ la tara e, in particolare, va detto che l’autobiografia contiene, per ammissione dello stesso Johnny Cash, “leggende e bugie, pazzi e ubriachi, vecchi amici e angeli”, ed è da questa cernita che bisogna partire. Nelle parti iniziali del racconto la voce è forte, scorrevole, perfetta per un senso del narrare informale, come se fosse l’incipit di una lunga ballata. L’infanzia in una famiglia povera, dove condivide il raccolto del cotone e la vita rurale, al punto di riflettere che “la terra non appartiene a noi, siamo noi ad appartenere a lei”, la morte tragica del fratello, il rapporto controverso con il padre, che osteggiava la vocazione, o meglio “il dono” per la musica, costituiscono i momenti più sofferti e intensi. Poi, dall’iniziazione in Germania dove è di stanza come addetto alle trasmissioni, bisogna distinguere un po’ i fatti dalle storie. Uno degli episodi su cui si è formata tutta un’aneddotica è il primato di Johnny Cash nello scoprire la morte di Stalin. Una notizia riportata anche Nick Kent in The Dark Stuff, mentre una delle più credibili biografie, quella di Steve Turner, non la confermava. Come succede spesso, c’è una porzione di verità, perché era davvero lì nel 1953 (in primavera venne trasferito in Italia) ma è enfatizzata perché nel suo lavoro di intercettazione Johnny Cash usava il codice Morse, ma non conosceva il russo, né gli elementi di crittografia per decifrare i messaggi. Resta una certa suggestione, pensarlo al centro di un istante storico della guerra fredda, ma comunque sia le parti più significative sono quelle che riguardano la musica: l’incontro con Sam Phillips, la Sun Records, gli albori del rock’n’roll con Elvis, Carl Perkins, Jerry Lee Lewis, il country vissuto come una comunità, l’ossessione per il gospel, l’amicizia con Roy Orbison. Johnny Cash è candido ed eccessivo, non nasconde nulla delle dipendenze che hanno distinto gran parte della sua vita, o delle numerose intemperanze, perché “è stato vittima di un’inquietudine cronica e di spinte profondamente autodistruttive”, come scriveva Nick Kent, ed è comunque il protagonista di un’autoritratto credibile. È in compagnia di una danza di fantasmi che lo accompagnano lungo tutto l’arco del racconto, facendo da contorno a “un vero eroe americano” come l’ha descritto Kris Kristofferson. Questo nell’autobiografia traspare in modo molto chiaro, sia quando elenca gli incontri formali con i presidenti (Nixon, Carter, Ford, Reagan), non sempre irreprensibili, sia quando celebra le amicizie più profonde, come nei frangenti spassosi con Faron Young e Waylon Jennings. La struttura è frammentaria, con un equilibrio sostanziale tra momenti drammatici e divertenti che si alternano, ma sempre all’interno di alcuni temi che restano costanti: la musica, la fede, la famiglia. È proprio nella seconda metà che Johnny Cash si dedica a un riconoscimento costante agli incontri e al suo inner circle, a partire dalla moglie per arrivare ai colleghi preferiti fino all’incontro (fondamentale) con Rick Rubin e alla gestazione degli American Recordings. Con il progredire della storia, diventa difficile distinguere la creazione dalla realtà, le ombre e le luci si contendono la scena e il personaggio, ancora una volta, prende il sopravvento lasciando Johnny Cash avvolto in un alone di mistero, che poi rimane il motivo principale del suo inalterato fascino.
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