Di tutti i viaggi di Jack London, quello nel
quartiere londinese dell’East End all’inizio del ventesimo secolo, riportato in
Il popolo dell’abisso è il più duro, il più crudo, il più estremo. Una scelta
univoca, sul campo e di campo, dove Jack London rimane colpito da quello che
incontra, tanto da ammettere: “Ne ho letto e visto un bel po’, di miseria; ma
questa supera ogni immaginazione”. L’East End è un buco nero lasciato dalle
rivoluzioni industriali: le descrizioni sono minuziose, precise, puntuali e l’empatia
di Jack London è totale, e non è soltanto una questione di povertà o di
insuperabili difficoltà quotidiane. L’atmosfera plumbea che grava sull’East End
di allora, come su tutte le periferie e i ghetti di oggi, è una variazione
antropologica che Jack London ha anticipato osservando e vivendo con Il
popolo dell’abisso:
“L’uomo non si abbandona più all’istinto con la medesima, naturale sicurezza di
un tempo. A poco a poco, s’è trasformato in una creatura raziocinante che, con
estrema freddezza, con gelido calcolo, può di volta in volta aggrapparsi alla
propria esistenza oppure decidere di liquidarla, a seconda che essa prometta
grandi piaceri o dolori profondi”. In realtà la scelta nell’East End è
piuttosto limitata e il meticoloso racconto di Jack London è a metà strada tra
il reportage e il manifesto politico, eppure mantiene sempre una viscerale
sincerità che è poi la sua nota caratteristica e per certi versi definitiva:
“Vedo un futuro radioso per il popolo inglese, per i suoi uomini e le sue donne,
per ciò che riguarda la loro salute, la loro felicità, le loro condizioni di
vita. Ma per gran parte della macchina politica che è responsabile davanti a
loro di una così cattiva direzione e amministrazione, vedo solo il mucchio
degli scarti e dei rottami”. Il bisogno di sottolineare le responsabilità e
l’indifferenza, quella che Thomas Carlyle chiama un “gelido, impersonale e
universale laissez-faire”, non impedisce a Jack London di inserire Il popolo
dell’abisso in un contesto letterario raffinato ed elegante che comprende Oscar
Wilde così come la poesia finale di Henry Wadsworth Longfellow che riassume con
tagli netti, precisi, essenziali il senso di una ferita che non si rimarginerà
più: “I vivi nelle loro case, e nelle loro tombe i morti, e le acque dei loro
fiumi, e il vino loro e l’olio e il pane. Ma ben più vasto di quello, un
esercito d’ogni dove ci assedia minaccioso, un esercito imponente e affamato,
che preme a ogni cancello della vita, i milioni oppressi dalla miseria, che una
sfida lanciano al nostro vino e pane, e tutti ci accusa di tradimento, i vivi
come i morti. Così, ogni volta che siedo alla tavola imbandita, da cui alti si
levano canti e risa, odo, tra la musica e l’allegria, quel grido inquietante e
terribile. Visi scavati e disfatti, sbirciano entro la sala illuminata, e
lunghe mani ossute si protendono ad afferrare le briciole che cadono. Dentro,
c’è luce e c’è abbondanza, e l’aria odora di profumi; ma fuori regnano il gelo
e l’oscurità, la fame e lo sconforto”. Necessario.
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