Questa
lunga intervista si rivela man mano che il dialogo si infittisce in
una raffinata dissertazione sullo scrittore, sulla sua arte e su
quella particolare realtà che si trova a vivere tra la sua
immaginazione e il mondo, fuori. Paul Auster parte da alcune
constatazioni molto semplici: a) “scrivere non è un modo molto
interessante di vivere: seduto il giorno intero in un locale, tutto
solo, concentrato su una macchina per scrivere. Eppure non potrei mai
immaginare di non farlo: la mia vita sarebbe vuota e incompleta se
non scrivessi”; b) “mi sento sempre più un principiante,
continuo ad imbattermi nelle stesse difficoltà, gli stessi vuoti, le
stesse disperazioni. Scrivendo si fanno così tanti errori, si
cancellano così tante brutte idee e frasi sbagliate, si cestinano
talmente tante pagine prive di interesse che alla fine uno capisce
almeno una cosa: quanto si è profondamente stupidi. Scrivere è
un’occupazione che rende umili”. Le
trame della scrittura meriterebbe
solo per la seconda asserzione, diretta conseguenza della prima,
perché riporta all’intima natura della scrittura, e della
letteratura, dove “ogni libro è un’immagine della solitudine”.
Anche l’identificazione di Paul Auster e della sua narrativa con
una città, New York, e con un quartiere in particolare, Brooklyn, è
funzionale a delineare Le
trame della scrittura che
è sempre l’approdo finale. Un microcosmo, un laboratorio umano
che, come dice Paul Auster, “è un modo di raccontare il mondo
attraverso personaggi umili e quotidiani, un mondo nel quale anche la
presenza di oggetti inanimati, apparentemente semplici e banali,
contribuisce ad esprimere emozioni particolarmente vivide”. Quello
di Paul Auster, anche nel limitato formato di un’intervista è un
modello apprezzabile e condivisibile lui riassume così: “Scrivere,
per me, non è un atto scientifico. E’ come vivere all’interno di
un sogno, e cercare di capirne il significato”. Ciò non toglie che
uno scrittore sia estraneo alla realtà, anche perché una volta che
si è applicato abbastanza scoprirà che “le atmosfere sono
altrettanto importanti dei fatti: e quando un certo tipo di discorso
arriva al paese dal vertice, influenza il modo di pensare e vedere se
stessi e gli altri dell’intera nazione”. Ecco perché anche dal
suo recinto di Brooklyn, Paul Auster riesce a essere convincente
quando si deve confrontare con una dimensione culturale come quella
americana, insieme complessa e degradata: “La nostra è diventata
una cultura della spazzatura, nutrita solo da celebrità e
pettegolezzi. Nessuno cerca più di vedere e ascoltare quello che sta
davvero succedendo nel nostro paese. La televisione distorce la
realtà americana, e così fa anche il cinema”. Ancora di più
quando deve prendere posizione rispetto agli uomini della repubblica
è chiaro e semplice come bisognerebbe essere: “Non capisco cosa
stiano combinando, perché si comportino così, in quale mondo
intendano farci vivere. Sicuramente non è il mondo nel quale voglio
vivere io”. Siamo d’accordo.
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