Una famiglia in
viaggio sulle strade americane. Non hanno alternative, se non andare avanti.
Non hanno niente e per continuare si devono privare di tutto. Vivono in
macchina e due bambini scrutano dal sedile posteriore il mondo difficile che
gli va incontro. E allora siamo andati via ha alcuni momenti di straziante bellezza in cui il
dolore filtra davvero attraverso il racconto di Michael Kimball. L’escamotage
della doppia voce, quella più matura e consapevole del fratello maggiore e
quella acerba della sorella, alterna i punti di vista ed è lo strumento con cui
E allora siamo andati via
riesce a collocarsi in una sua dimensione. La storia è lineare e spietata come
la strada che la famiglia sta seguendo “in mezzo all’America con tutti quei
chilometri alle spalle e tutti quei chilometri davanti noi”: le uniche scosse
sono le tappe disperate che i genitori impongono ai figli, gli adulti ai
bambini. A ogni sosta, cedono qualcosa per poter continuare a viaggiare e la
spoliazione è costante almeno quanto umiliante: “Abbiamo continuato a barattare
la nostra roba per chilometri e chilometri. Abbiamo barattato la nostra vita
con quella di altre persone, gli abbiamo dato quello che forse poteva capitarci
e in cambio abbiamo preso quello che ci è capitato davvero”. E’ un rito che si
ripete, martellante, come un refrain e in effetti, per via delle reiterazioni e
dei suoi temi spigolosi E allora siamo andati via richiama l’andamento di un’aspra ballata
tradizionale, di un blues rurale o di una canzone della Carter Family. Anche il
linguaggio povero, grezzo e infantile si adatta con una certa naturalezza allo
scopo. Quello che stona e inquieta è l’insistenza, quasi compiaciuta, con cui
Michael Kimball ribadisce le condizioni lancinanti in cui ha infilato i suoi
personaggi che, dalla miseria all’incesto, sono costretti a sopportare tutto lo
spettro di uno strazio indicibile. E’ evidente fin dalle prime pagine di E
allora siamo andati via
che non ci sarà via di uscita e che la speranza è la prima a morire, per cui
non si capisce la necessità di ribadire in continuazione una condizione che è
già esplicita. E’ chiaro che la fuga non ha meta, che stanno tutti scappando da
qualcosa che si portano dietro, dentro e che “a forza di viaggiare e di aver
bisogno dovevamo andare sempre più lontano per raggiungere le cose più vere che
c’erano nella nostra famiglia. Dovevamo vendere tutto quello che era rimasto
nella nostra famiglia vera. Dovevamo passare per altri paesi e altri posti e
per tutte quelle cose che ci succedevano sulla strada”. Allora il tentativo di
guardare la storia dalla prospettiva dei bambini, con il linguaggio grossolano
e storpiato, se è pregevole a livello intuitivo e adatta alla dimensione on the
road, attraverso l’uso di ricostruzioni frammentarie, grezze, infantili come
vuole la realtà, a lungo andare si risolve nella ripetizione di uno schema,
come se Michael Kimball sapesse soltanto quello e infierire non è mai giusto,
anche (e soprattutto) se è solo fiction.
Ho letto questo libro anni fa, ricordo che mi era piaciuto, anche nella struttura,che, seppur all'inizio mi aveva lasciata perplessa, poi mi aveva intrigato, trovandogli una sua propria funzionalità al tipo di narrazione. Non ricordo invece di aver riscontrato i difetti che rilevi, ma è passato troppo tempo.... ho cercato poi se avessero pubblicato qualcos'altro dello stesso autore che mi aveva incuriosito, ma a oggi, credo, sia l'unico pubblicato, almeno in Italia.
RispondiEliminaAvevo cominciato a leggerlo anch'io, a suo tempo, poi non ero riuscito ad andare avanti. L'ho riletto poco fa e me ne sono fatta una ragione. Si, c'è un'idea forte, ci sono molti passaggi toccanti, c'è questa disperazione on the road, ma in fondo mi è sembrato che Michael Kimball continuasse a girare attorno a una sola scena. Rimane un romanzo interessante, ma mi sembra un po' troppo autoreferente. Confermo: non è stato pubblicato altro, al momento. E grazie, as usual, del commento.
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