domenica 10 novembre 2013

Michael Kimball

Una famiglia in viaggio sulle strade americane. Non hanno alternative, se non andare avanti. Non hanno niente e per continuare si devono privare di tutto. Vivono in macchina e due bambini scrutano dal sedile posteriore il mondo difficile che gli va incontro. E allora siamo andati via ha alcuni momenti di straziante bellezza in cui il dolore filtra davvero attraverso il racconto di Michael Kimball. L’escamotage della doppia voce, quella più matura e consapevole del fratello maggiore e quella acerba della sorella, alterna i punti di vista ed è lo strumento con cui E allora siamo andati via riesce a collocarsi in una sua dimensione. La storia è lineare e spietata come la strada che la famiglia sta seguendo “in mezzo all’America con tutti quei chilometri alle spalle e tutti quei chilometri davanti noi”: le uniche scosse sono le tappe disperate che i genitori impongono ai figli, gli adulti ai bambini. A ogni sosta, cedono qualcosa per poter continuare a viaggiare e la spoliazione è costante almeno quanto umiliante: “Abbiamo continuato a barattare la nostra roba per chilometri e chilometri. Abbiamo barattato la nostra vita con quella di altre persone, gli abbiamo dato quello che forse poteva capitarci e in cambio abbiamo preso quello che ci è capitato davvero”. E’ un rito che si ripete, martellante, come un refrain e in effetti, per via delle reiterazioni e dei suoi temi spigolosi E allora siamo andati via richiama l’andamento di un’aspra ballata tradizionale, di un blues rurale o di una canzone della Carter Family. Anche il linguaggio povero, grezzo e infantile si adatta con una certa naturalezza allo scopo. Quello che stona e inquieta è l’insistenza, quasi compiaciuta, con cui Michael Kimball ribadisce le condizioni lancinanti in cui ha infilato i suoi personaggi che, dalla miseria all’incesto, sono costretti a sopportare tutto lo spettro di uno strazio indicibile. E’ evidente fin dalle prime pagine di E allora siamo andati via che non ci sarà via di uscita e che la speranza è la prima a morire, per cui non si capisce la necessità di ribadire in continuazione una condizione che è già esplicita. E’ chiaro che la fuga non ha meta, che stanno tutti scappando da qualcosa che si portano dietro, dentro e che “a forza di viaggiare e di aver bisogno dovevamo andare sempre più lontano per raggiungere le cose più vere che c’erano nella nostra famiglia. Dovevamo vendere tutto quello che era rimasto nella nostra famiglia vera. Dovevamo passare per altri paesi e altri posti e per tutte quelle cose che ci succedevano sulla strada”. Allora il tentativo di guardare la storia dalla prospettiva dei bambini, con il linguaggio grossolano e storpiato, se è pregevole a livello intuitivo e adatta alla dimensione on the road, attraverso l’uso di ricostruzioni frammentarie, grezze, infantili come vuole la realtà, a lungo andare si risolve nella ripetizione di uno schema, come se Michael Kimball sapesse soltanto quello e infierire non è mai giusto, anche (e soprattutto) se è solo fiction.

2 commenti:

  1. Ho letto questo libro anni fa, ricordo che mi era piaciuto, anche nella struttura,che, seppur all'inizio mi aveva lasciata perplessa, poi mi aveva intrigato, trovandogli una sua propria funzionalità al tipo di narrazione. Non ricordo invece di aver riscontrato i difetti che rilevi, ma è passato troppo tempo.... ho cercato poi se avessero pubblicato qualcos'altro dello stesso autore che mi aveva incuriosito, ma a oggi, credo, sia l'unico pubblicato, almeno in Italia.

    RispondiElimina
  2. Avevo cominciato a leggerlo anch'io, a suo tempo, poi non ero riuscito ad andare avanti. L'ho riletto poco fa e me ne sono fatta una ragione. Si, c'è un'idea forte, ci sono molti passaggi toccanti, c'è questa disperazione on the road, ma in fondo mi è sembrato che Michael Kimball continuasse a girare attorno a una sola scena. Rimane un romanzo interessante, ma mi sembra un po' troppo autoreferente. Confermo: non è stato pubblicato altro, al momento. E grazie, as usual, del commento.

    RispondiElimina