Siamo nel North Dakota, è il 1988, e per
attraversare il territorio in cui sorge La casa tonda bisogna prima di tutto
risalire al peccato originale nelle vene dell’America perché alla fonte, come
scrive Louise Erdrich, la logica era “arraffare terra indiana più in fretta che
si può e in tutti i modi possibili e immaginabili. La speculazione sui terreni
è la borsa valori dell’epoca. Lo fanno tutti. George Washington. Thomas
Jefferson”. I fondatori della democrazia, dell’indipendenza, della libertà. Non
è facile da digerire ed è per quello che le riserve hanno assunto un carattere
ambivalente. Sono terre di frontiera in cui l’idea stessa del diritto, delle
istituzioni su cui si fonda la moderna nazione americana, gli Stati Uniti, è
latente e ambigua fin dai registri delle nascite e delle morti visto che “di
generazione in generazione siamo diventati un impenetrabile sottobosco di nomi
e di rapporti”. La casa tonda è il luogo rituale, poco più di una capanna in
riva a un lago, accanto alla quale viene aggredita, violentata, massacrata
Geraldine Coutts. Solo per un caso fortunato, uno di quei piccoli dettagli che
Louis Erdrich ama disseminare nei suoi racconti, la donna è riuscita a salvarsi
dall’aggressione che, nell’idea del suo carnefice avrebbe dovuto risolversi con
un bel cadavere carbonizzato. Attorno a lei c’è tutta la comunità e la famiglia
nativa a cercare di curare ciò che le sta erodendo l’anima e la vita come
“un’infezione dello spirito” e più di tutti il marito e il figlio, Joe. Il
primo è il giudice della riserva e cerca di districarsi come meglio può nella
babilonia di codici e giurisdizioni per amministrare una parvenza di giustizia.
E’ una vocazione che si scontra tutti i giorni con il fallimento e soprattutto
con la sensazione di essere stranieri sulla propria terra. Joe è poco più di un
bambino che ha appena scoperto la birra e quel poco di indipendenza che può
concedere l’uso della bicicletta e ha un’ammirazione sconfinata per il padre,
che vede come un saggio uomo delle istituzioni. Quando scopre che in realtà le
sue sentenze hanno sempre riguardato piccole diatribe locali, capisce che non
potrà contare su di lui per risolvere il mistero della violenza subita dalla
madre. Ci vuole proprio l’innocente libertà di associazione che riesce ad
annodare le leggende e il linguaggio nativo, i codici tribali e le leggi
federali, piccoli scampoli della realtà e “così tante cicatrici che non era
facile contarle” per mettere insieme la visione di un mondo complicato. Quello
delle riserve, che non sono soltanto il lascito di una sconfitta, la prima e
fondamentale perdita americana, ma continuano a essere una zona grigia di
violenza e di dolore per le donne. Louis Erdrich riesce a mantenere in
equilibrio tra la sua storia e quella tragica realtà con una delicatezza e una
cura nei suoi personaggi che sono ammirevoli e con un finale, dolente e
bellissimo, in cui l’unico vero giudice, la vita, emette il suo verdetto e “la
sentenza è: soffrire”. Ha ragione Philip Roth: stupendo.
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