Mezz
Mezzrow, che nasce “coetaneo del secolo ventesimo”, ha trascorso
una vita intera a scoprire che “jazz e libertà sono sinonimi”.
Comincia che è ancora un bambino a seguire il ritmo della street
life, lo slang dei bassifondi, e quell’utile consiglio per cui “se
non sapete far soldi, fatevi almeno degli amici”, che diventerà
poi il classico Makin’ Friends
di Jack Teagarden. La sua è “una tipica storia americana, ma
capovolta”, nel senso che l’unica scuola che ha frequentato è
stata quella della galera, che ricorderà soprattutto per il
condannato a morte che andava incontro al suo destino con Dear
Old Girl nell’aria. La musica c’è
sempre, è l’unico linguaggio condiviso, una forma di sollievo e di
piacere, “un geyser di emozioni in ebollizione, che spalanca tutte
le finestre e permette ai nostri istinti, alle nostre idee, ai nostri
sentimenti di sgorgare liberamente”. E’ anche l’ultima spiaggia
per Mezz Mezzrow che comincia a suonare e a scrivere perché “nel
1926 la danza di San Vito, punteggiata dal ritmo dei mitra, si
diffuse per tutto il paese. Dal tramonto all’alba non si fece che
suonare il jazz, bere whisky di contrabbando e abbandonarsi alla
pazzia”. E’ un’epoca bollente e selvaggia che vede Mezz Mezzrow
dividersi tra sassofono, clarinetto e valanghe di marijuana che, a
lungo, costituirono la sua principale fonte di sostentamento. Il
doppio lavoro non gli impedisce di ritrarre da vicino i protagonisti,
con minuziosa passione. A Bessie Smith dedica un lungo omaggio che si
conclude così: “Bessie era una vera donna, tutte le donne del
mondo riunite in una persona sola”. Più colorito, ma non meno
affettuoso il ritratto di Bix Beiderbecke che “suonava una cornetta
che portava con sé senza astuccio, un corto e grosso affare
inargentato, che sembrava fosse stato raccolto proprio in quel
momento dalla spazzatura. Mentre suonava, s’era piantato davanti a
me, perché noi eravamo i due strumenti di spalla, e le esalazioni di
whisky che mi soffiò sul naso per poco non mi fecero svenire; ed
anche la musica che usciva dal suo strumento sembrava sotto spirito”.
Sono altrettanto vivide e sanguigne le rappresentazioni della legione
di musicisti che Mezz Mezzrow convoca racconta snocciolando i suoi
blues, da Jelly Roll Morton a Sidney Bechet, da Gene Krupa ad Alberta Hunter fino a Louis Armstrong, che “era un genio, e avrebbe
saputo creare della grande musica anche avendo a sua disposizione
solamente un’asse da lavandaia e un pettine”. Attorno a questi
indimenticabili (e geniali) protagonisti, si sviluppa tutto “un
mondo equivoco”, come lo definisce Mezz Mezzrow, dove artifici ed
espedienti per la sopravvivenza dei jazzisti (in un aneddoto, capita
che vengano pagati in anatre, ancora da cucinare) devono sopportare
la convivenza forzata con i gangster, la somma incomprensione delle
loro idee, per non dire le tentazioni degli oppiacei. Tra Chicago,
Detroit, New York, New Orleans e Parigi, diario di bordo di Mezz
Mezzrow resta una cronaca cruda, spontan e grezza finché si vuole,
ma molto sincera, anche nella sua limitata, e ben precisa,
collocazione temporale: “Il 1927 e il 1928 furono gli ultimi anni
fortunati del vero jazz, gli ultimi in cui un solista, dotato di vera
ispirazione, potesse ancora abbandonarsi alla sua vena e conquistare
il pubblico, che lo ascoltava a bocca aperta. Ma quel periodo stava
per concludersi, per diventare un capitolo nella storia del jazz,
anzi la favola di un’età mitica”. In effetti è proprio così, e
alla fine soltanto la musica è rimasta coraggiosa, intrepida,
inalterata, splendida perché, come racconta Mezz Mezzrow, “è
sgorgata tutta da nostro entusiasmo, dal nostro vivo senso di
amicizia, proprio come la musica nata quaranta o cinquant’anni fa a
New Orleans, e sempre nuova. E questo è il tipo di musica che
continueremo a incidere sui nostri dischi, finché riusciremo a
respirare, o finché il nostro vecchio cuore non si stancherà di
battere”. L’ultima tappa, nella Big Easy, in realtà riporta
all’inizio di tutto ed è la chiave di volta nel commiato di Mezz
Mezzrow: “Questo era quel che New Orleans voleva dire: era una
celebrazione della vita, respirare, piegare i muscoli, sbattere le
palpebre, leccarsi le labbra, malgrado tutto il male che il mondo può
farvi”. Questo è il blues, questo è il jazz.
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