Con me all’inferno mostra da quale palude sia emerso Jerry Lee Lewis e con lui quel misterioso linguaggio che corrispondere al rock’n’roll. Non è una storia semplice come bere un bicchiere d’acqua (d’altra parte nell’albero genealogico scorre tutto un altro genere di linfa) perché il genere biografico secondo Nick Tosches diventa storia e racconto e la sua narrazione servendosi di strumenti diversi e variopinti, stringesui tempi e sui dettagli per andare al sodo delle contraddizioni del personaggio e di tutto ciò che incarna la sua leggenda. Il resoconto di una vita bruciante, lancinante, animata da una personalità controversa e combattuta (“Non so perché, perché sono fatto a questo modo. E’ una cosa che mi sta consumando. Io non capisco, non so perché non sono abbastanza uomo da uscire da quella porta e fare quello che dovrei fare, perché se non lo faccio finirò all’inferno. Amico, io davvero non so cosa c’è di sbagliato in me. Che ci faccio qui, in un nightclub? Qui dentro io non posso mica richiamare la gente dall’altare. Non finirò in paradiso”) è costruito assemblando la visione di Nick Tosches, sempre attento al dettaglio più insignificante e comunque senza perdere l’attenzione del quadro generale, con altre forme di scrittura e lettura: spezzoni di interviste, ritagli di articoli, trascrizioni di registrazioni, comunicati. L’effetto è straniante e oltremodo efficace: la biografia dell’ultimo quarto del Million Dollar Quartet diventa una vera e propria leggenda “americana” perché Nick Tosches guarda nelle profondità di Jerry Lee Lewis come se fossero sue con un gusto epico nel raccontarne la solitudine: “Era Cleveland, o Toledo. In ogni caso, era buio e pioveva forte. Chiamò il servizio in camera per farsi portare una bottiglia, ma nessuno rispose. Accese la televisione, ma trovò soltanto le interferenze statiche del monoscopio. Quelle immagini confuse assunsero una nitidezza strana, irreale, e cominciò a vedere uno sciame di orribili insetti. Erano questi i demoni, liberati dal vaso di bronzo di re Salomone”. E’ l’America delle radici, del whiskey, delle credenze, della fede e del rock’n’roll, dei sogni e dei fallimenti. E’ l’America in tutte le sue contraddizioni e le storie parallele, e inseparabili, di Jerry Lee Lewis e di Jimmy Lee Swaggart si intrecciano anche se poi è naturale e logico che alla fine sia il “Killer” il vero e unico protagonista perché, come scrive Nick Tosches, “era lui l’ultimo figlio selvaggio, e lo sapeva, proprio come sapeva cosa provassero gli uomini di quei racconti quando esplodeva il tuono senza che però cominciasse a piovere”. L’aria di tempesta spira in tutta la sua vita e per un Cadillac guadagnata con un milione di copie di Whole Lotta Shakin’ Goin’ On (“Trascino con me il pubblico all’inferno. Come faccio ad andare in paradiso con Whole Lotta Shakin’ Goin’ On? Non puoi servire due padroni, devi odiarne uno e amare l’altro”) si ritrova devastato da divorzi, ingiunzioni, arresti e due figli morti in modo tragico. Nick Tosches attinge senza patemi nella ferocia del dramma e nella furia di Jerry Lee Lewis e il suo ritratto è tanto fedele quanto perentorio: “Andassero tutti affanculo! Si fottano! Vadano tutti all’inferno, dal primo all’ultimo! E alla svelta, cazzo. Non si ammazzano alligatori, in Louisiana. E io ne ho sposati un paio”. Biblico.
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