Nel corso dell’evacuazione di Saigon, il generale della polizia del Vietnam del Sud parte con la famiglia dall’aeroporto sotto una salva di granate. Lo seguono il fidatissimo capitano, che in realtà è, da anni, un agente infiltrato dai vietcong, e il suo amico Bon. Entrambi hanno seguito gli insegnamenti e le indicazioni di Claude, un uomo dell’intelligence americana che si lascia alle spalle un disastro salutandolo così: “La solita serie di stronzate. Speriamo che la storia si dimentichi di tutto il bordello che abbiamo combinato”. È soltanto un arrivederci: tornato negli Stati Uniti, dove era già stato da studente, il capitano cerca di adeguarsi lavorando ancora a stretto contatto con il generale (compreso un primo assassinio) e i profughi vietnamiti, anche se gli obiettivi restano nebulosi almeno quanto la loro condizione perché “quale che fosse il termine con cui definire il nostro sradicamento, rifugiati, esuli o immigrati, non ci limitavamo a vivere dentro due distinte culture, celebrando il grande e immaginario calderone americano. Le persone sradicate vivono anche in due zone temporali diverse: tra il qui e il laggiù, tra il presente e il passato, come riluttanti viaggiatori nel tempo. Ma se la fantascienza immaginava che i viaggi nel tempo potessero avvenire in entrambe le direzioni, quell’orologio ci mostrava tutt’altra cronologia. Il suo segreto, in realtà sotto gli occhi di tutti, era molto semplice: non facevamo che muoverci in tondo”. La missione del capitano diventa quella di provare a infiltrarsi tra le pieghe della produzione di un film dedicato alla guerra, dato che il punto di vista dei vietnamiti, da entrambi le parti, non viene considerato. La constatazione è elementare, ma costituisce la parte centrale del romanzo: “Non possiamo rappresentare noi stessi. È Hollywood, a rappresentarci. Perciò, dobbiamo fare tutto il possibile per assicurarci di essere rappresentati nel modo migliore”. Il villaggio (questo il titolo) è girato nelle Filippine ed è ispirato, senza tanti complimenti, ad Apocalypse Now. È uno snodo essenziale per Il simpatizzante e chiunque, sul set, come ricordava Eleanor Coppola (i suoi diari sono una fonte d’ispirazione dichiarata dallo stesso Viet Thanh Nguyen), stava “vivendo un qualcosa che le tocca in profondità, mutando la loro visione del mondo e di sé”. Succede anche al capitano: tornato in America, si ritrova a dover fronteggiare la necessità di un secondo omicidio, e del mandato di un terzo che dovrebbe toccare proprio a Bon. L’alternativa è tornare insieme in Vietnam in una missione dai contorni impossibili (ribaltare la vittoria) ed è quella che sceglie. Catturati entrambi dopo uno scontro a fuoco, vengono interrogati con le stesse torture a cui si erano applicati, sul fronte opposto, con gli americani. Per il capitano, in particolare, il processo è molto lungo ed elaborato. Affamato, bendato, legato, privato del sonno, viene costretto a scrivere e riscrivere la sua confessione. Un supplizio. Il comandante del campo di prigionia e il commissario politico si aspettano una risposta precisa (una sola parola), ma il capitano soffre nell’ambiguità perché “l’unica vera illusione ottica è quella che ci fa vedere gli altri e noi stessi come entità indivise e integre, come se essere sempre a fuoco fosse una condizione più autentica rispetto all’essere sfocati. Pensiamo che il nostro riflesso nello specchio ci dica chi siamo veramente, quando in realtà il modo in cui vediamo noi stessi e il modo in cui ci vedono gli altri raramente coincidono. Spesso, anzi, tanto più inganniamo noi stessi, quanto più crediamo di vederci con chiarezza”. Viet Thanh Nguyen compie un lavoro di destrezza fondendo in tre sezioni differenti, eppure incastrate una dell’altra, la ricostruzione storica della caduta di Saigon, sinonimo della sconfitta dell’America, l’interpretazione cinematografica di quella discesa nelle tenebre e l’ultima (logorroica) parte della prigionia e degli interrogatori. La collisione di due mondi viene condensata nelle personalità schizofreniche che Il simpatizzante coltiva per dovere e con piacere: la costruzione è elaborata (e non senza sorprese), a tratti ridondante, spesso torbida e ipnotica tanto che, a lungo, si ha l’impressione si inseguire un fantasma. O, forse, due.
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