Lo sdoppiamento non è raro nelle cerimonie native, solo che in Danze di guerra diventa un singolare strumento narrativo, che si aggiunge alla già estemporanea composizione d’insieme. Nell’insolita dimensione, non collocabile secondo i normali canoni, si alternano racconti e narrazioni autobiografiche, canzoni e poesie e in ogni frammento c’è lo Sherman Alexie delle domande e quello delle risposte. Un primo interrogativo, nella conclusione di Delimitati, il prologo in versi che apre le Danze di guerra, esprime già la tensione che lo attraverserà dall’inizio alla fine: “Perché i poeti pensano di potere cambiare il mondo?”, e se la risposta di Sherman Alexie è trascurabile, non lo è la terra di nessuno che si apre da lì in poi. Perché il mondo così com’è non va e, comunque vada, i poeti continueranno a pensare di avere il potere di cambiarlo. L’elemento paradossale aiuta Sherman Alexie a camminare in bilico su un filo di rasoio dove la sua vita, come quella dei suoi personaggi, è messa a rischio da piccoli e grandi inconvenienti. La prima breccia arriva subito con Furto con scasso che, come succede spesso in Danze di guerra, in un balzo si ricollega a Il figlio del senatore. Da prospettive diverse entrambi i racconti portano a considerare che “non succede mai nulla, si sa. La vita è infinitesimale e banale”, ma quando succede si aprono scenari che, di fatto, sono ipoteche morali. Bruce Springsteen, evocato da Sherman Alexie altrove, direbbe che “bisogna fare attenzione a non finire dalla parte sbagliata”. L’indecisione su cosa è giusto, e cosa non lo è, nasconde in realtà un disincanto virtuoso: fervido nel raccontare le contraddizioni, le nevrosi, le bugie e le ipocrisie, il disordine delle Danze di guerra si svela con una miriade di piccoli segnali che si collegano tra di loro in un florido sottobosco di dozzine di citazioni disseminate nel testo. Si parte da un testimone oculare della seconda guerra mondiale, Leonard Elmore (coincidenza?), a sollecitazioni che attingono alla letteratura, al cinema, più di tutto, alla musica, perché da Freddy Fender a Marvin Gaye, “non era forse possibile che la musica pop americana venisse trasmessa di generazione in generazione, proprio come il carattere degli occhi azzurri o della calvizie? Non era forse vero che la musica pop americana aveva creato un nuovo organo invisibile, un’ipofisi dell’anima nel corpo americano?”, e per la risposta non è abbastanza tutta La ballata di Paul Nondimeno che, tra l’altro, offre molte altre suggestioni sul tema, compresa l’idea che Elvis sia stato più importante di Einstein (un’ipotesi che potrebbe trovarci concordi). L’alternanza tra toni e forme, dalle esternazioni autobiografiche alle odi agli innamorati delle piccole città, alle compilation e ai telefoni ai gettoni, che sono l’intercalare che mette in risalto l’elemento della nostalgia volto a “celebrare la tua odissea”, non è una sorpresa che una delle questioni ricorrenti (e irrisolte) in Danze di guerra è “Siamo arrivati?”. Una destinazione la si raggiunge, ed è per certi versi definitiva, ma ha sempre la forma del dubbio quando Sherman Alexie, concludendo Agghiacciante simmetria, si chiede: “Avrò il coraggio di entrare nel buio di un cinema, tenere per mano una donna bellissima e innamorarmi ancora della mia innocenza?”. Inafferrabile come una canzone, sinuoso quanto un crotalo (e non meno pericoloso), Danze di guerra ha gli stessi effetti di un’improvvisa frustata di vento. Può essere un piacere, o un disturbo, ma le risposte, direbbe un altro poeta, quello premiato con il Nobel, rimangono lì.
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