Quando la Larmer
Steel, alla fine del 1983, chiude i battenti, gli operai tornano a bere nei bar
di Baltimora con la certezza che tutto un mondo è finito. Il lavoro in
acciaieria è duro, faticoso e pericoloso e per arrivare alla fine della
giornata Red Baker, Dog Donahue e gli altri compagni di sventura hanno
sviluppato un rete di sicurezza tessuta di orgoglio e amicizia. Anche quella
viene travolta e con Io sono Red Baker Robert Ward rispolvera i drammi umani seguiti alle
politiche economiche dei governi Reagan e delle guerre commerciali con il
Giappone. Questo è solo il punto di partenza, il prologo della storia, l’inizio
di un tuffo nella vita a livello zero dove alla dolorosa routine quotidiana si
sostituiscono sogni improbabili, che presuppongono quasi sempre la fuga che è
un altro modo per evitare la realtà. L’ombra della fabbrica chiusa è un peso
insostenibile per la dignità di chi ci ha vissuto per anni e le spinte di una
società competitiva fino all’ossessione rendono la tensione palpabile. Anche i
comportamenti più resistenti e costruttivi come quelli di Wanda, la moglie di
Red Baker, sembrano inutili nella marea di disperazione che attanaglia
un'intera città. La condizione di estrema precarietà crea un’atmosfera cupa,
senza alternativa. I legami, le amicizie, i matrimoni diventano scomodi,
ingombranti, asfissianti perché, come dice Red Baker, “vuoi qualcuno che ti
conosca, per condividere ogni tuo segreto, qualcuno con cui condividere la tua
solitudine e poi, dopo che questo succede, ti senti completamente vuoto e
privato di tutto. Ti rubano i segreti, conoscono le paure nascoste dietro i
tuoi modi. Sei ridotto all’osso”. Robert Ward riprende la lingua grezza,
popolare, incolta e naturale: gergo da strada, da bar, da birra e whiskey,
intriso dalla malinconia delle canzoni country & western e dall’urlo
incondizionato di Satisfaction. Senza tanti aggiustamenti la trasforma in una scrittura che è livida,
sgraziata, grezza e comunque molto solida e concreta nel raccontare la
disperazione e il disorientamento blue collar. Tra una fila all’ufficio di
collocamento e una rissa, una sbronza e una crisi famigliare, le solitudini di
Red Baker e Dog Donahue si rincorrono nell’inverno di Baltimora: anche se
l’umanità è la stessa, il quadro degli outsider di Robert Ward è molto meno
edificante delle ballate springsteeniane (la seconda parte di The River e Nebraska in modo particolare) che l’hanno ispirato. Tra tutte,
è quel verso di Atlantic City che dice “ora sto cercando un lavoro, ma è difficile trovarne, qui ci
sono solo vincitori e perdenti e non bisogna restare intrappolati nella parte
sbagliata della linea” a collimare con la storia di Red Baker. Il dramma, tanto
inevitabile quanto realistico, è dietro l’angolo e anche se il finale, che
arriva un po’ come un epilogo, è fortunoso, lascia in sospeso ancora molti
dubbi irrisolti ed è attraversato dalle ombre dell’acciaieria ormai muta e
immobile come una città popolata da fantasmi. Un libro scomodo e necessario.
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