Questa raccolta di Saggi su passato, futuro e
tutto ciò che sta nel mezzo, pur nella sua caotica essenza, costruita articolo dopo
articolo, rubrica dopo rubrica, “procedendo alla cieca, correndo a perdifiato,
buttando giù i pensieri così come arrivano”, e sono parole dello stesso Ray
Bradbury, apre uno squarcio vitale sul mondo di uno scrittore e di un lettore
unico. Anche se molte selezioni, trapiantate dal contesto originario, dove
avevano un senso più specifico e (anche) un’altra vita, appaiono piuttosto
distanti o estranee alle coordinate di Troppo lontani dalle stelle, Ray Bradbury è sempre
entusiasta ed è questa la componente più rilevante: può essere un incontro
(memorabili quelli con Walt Disney o Bertrand Russell e la moglie), uno spunto
polemico (e ce ne sono parecchi) o un ricordo e qualche che sia il taglio
dell’articolo, del saggio, della rubrica, la sua verve è sempre trascinante,
spinta dalla passione, dal gusto, dalla curiosità. I temi sono tra i più
disparati: dal trasporto con cui racconta l’essenza americana delle ferrovie in
Ogni amante dei treni è mio amico alle descrizioni di Parigi e Los Angelese,
“città di quarzo” che Ray Bradbury riassume, per François Truffaut in “quasi
ottocento chilometri quadrati di illuminazione metropolitana, un’enorme
distesa, un panorama oceanico di energia elettrica”, la prosa è sempre
immaginifica, accattivante, immediata. E’ anche molto pungente quando dice che
“noi siamo il prodotto finale di fallimenti su fallimenti sfociati in un
prodotto finale che è la sopravvivenza dell’uomo” ed essendo Troppo lontani
dalle stelle, ormai
incapaci di inventare altri viaggi o nuove direzioni, “noi riempiamo il vuoto
con la nostra attenzione. Noi vediamo, ascoltiamo, tocchiamo, sappiamo”. Sarà
per quello che Ray Bradbury riscrive i finali dei film (il legame con il cinema
è uno dei canali sotterranei che imperversa e annoda le singole parti di Troppo
lontani dalle stelle)
e combatte con una divorante attrazione per la letteratura: “Kipling, Dickens,
Wilde, Shaw, Poe” sono i punti di riferimento e poi Moby Dick (forse più di tutti
perché sembra coltivare una venerazione per Melville) e infine Jules Verne con
la sua percezione del futuro. Ed è qui che l’americano Ray Bradbury sa essere
ancora più eloquente che altrove. L’America, è inutile nasconderlo o cercare di
negarlo, è sempre stata l’interprete principale del futuro, il modello
proiettato in avanti, il profilo sfuggente e veloce, più veloce di tutti gli
altri. Ray Bradbury sembra intuire, capire, conoscere la dimensione fallimentare
di quel’avvenire, i retroscena e le parti in ombra, le imperfezioni maledette,
le ferite profonde dentro i sogni di gloria. Una visione nitida, chiarissima e
tagliente una vera e propria perla scintillante racchiusa nel guscio
frastagliato di Troppo lontani dalle stelle. L’opulenza della
disperazione: l’America attraverso lo specchio è un capolavoro, un
cahier de doléances lucido, duro, preciso e incazzato. Per quello che dice, per
come lo dice.
Nessun commento:
Posta un commento