Come
ricordava Henry David Thoreau, “siamo dei crociati miserabili” e deve essere
stata anche la prima, intima considerazione che ha fatto Alexander Supertramp
alias Christopher McCandless alias e fa capire anche perché ha scritto i suoi
diari in terza persona come se, non solo si sentisse un estraneo davanti alla
wilderness, ma fosse straniero anche a se stesso e ai ponti e ai legami che si
è tranciato alle spalle. La sua storia (vera), raccolta non senza fatica da Jon
Krakauer, è diventata Nelle terre estreme e a sua volta il libro si è trasformato in Into The Wild, il film di Sean Penn che, incuriosito dall’immagine e
dagli strilli in copertina, l’ha preso e l’ha letto e riletto in una notte. La
“disobbedienza civile” di Christopher McCandless in apparenza radicale e
rivoluzionaria è frutto di una lunga e consolidata tradizione americana: le
direzioni della partenza, verso ovest, verso nord dovrebbero essere indizi
sufficienti per far collimare un’antica vocazione alla frontiera con altri
orizzonti intravisti tra le righe dei libri di Jack London prima e Jack Kerouac
poi. Proprio come un’ultima, incosciente scintilla di quell’esuberanza, e ormai
diventato Alexander Supertramp, non si accontenta di un viaggio, dei suoi
imprevisti, degli incontri, delle sorprese e di un ipotetico ritorno a casa. “Un
uomo è beat ogni volta che rischia il tutto per tutto” diceva John Clellon
Holmes e la svolta matura proprio “on the road”, rinunciando al denaro,
all’automobile, al lavoro, in fondo persino alla propria identità, per
diventare parte di un’utopia più grande, dove la libertà, o soltanto una
speranza di sfiorarla, è legata in modo indissolubile alla vita (e alla morte) Nelle
terre estreme. Anche nella forma
rivista e corretta da Jon Krakauer, i grezzi diari di Alexander Supertramp sono
la cronaca di chi si crea un destino, piuttosto che subirlo, e costi quel che
costi. Quando ripete nei suoi ultimi messaggi la volontà di “entrare nella
natura” è qualcosa in più e di diverso di un ritorno a casa, e va ricordato
Simon Schama quando scriveva che “la wilderness, dopo tutto, non colloca se
stessa in nessun luogo, non si assegna nessun nome”. Non c’è niente di esotico
o di esoterico nel complesso viaggio di Nelle terre estreme e la conclusione, più che il finale, è quella giusta
perché rimette ordine e ripristina un senso: mostra con lucidità che, non solo
siamo parte della natura, ma che ne siamo anche la parte malata o, come diceva
William Burroughs, siamo il virus che distruggerà ogni forma di vita sulla
terra. Aggiungendoci la deformazione di chi ha il coraggio di sostenere che il
clima è peggiorato, i ghiacciai si stanno sciogliendo, il mondo sta andando a
puttane, come se fosse colpa delle montagne o dei fiumi o degli alberi. Quando
poi, tutto quello che riesce a pensare il genere umano è di cambiare la
macchina vecchia con quella nuova, anche se, come fa notare Christopher
McCandless in un significativo passaggio all’inizio del suo viaggio, funziona ancora
benissimo.
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