Forse per i trascorsi legati all’attività di
editore, o per la sua multiforme percezione dell’esperienza artistica, la
poesia di Lawrence Ferlinghetti è sempre scivolata a un millimetro di distanza
da quella di Allen Ginsberg, Gregory Corso o Jack Kerouac. L’occasione è sempre
propizia per ripristinare la giusta dimensione, allineando Lawrence
Ferlinghetti ai suoi amici e compagni d’avventura. Intanto, va ricordata una
comune e condivisa attitudine alla poesia che proprio nell’epigrafe iniziale di
A Coney Island of The Mind, Ferlinghetti riassume così: “Come poeta, a
volte mi immagino ancora nei panni di un reporter onnisciente venuto dallo
spazio, che invia i suoi dispacci a un caporedattore supremo convinto della
necessità di rappresentare senza censure le tragicomiche pagliacciate di quelle
creature bipedi note col nome di esseri umani”. La poesia di Ferlinghetti, che
in A Coney Island of The Mind raggiunge una delle sue migliori espressioni, ha
i tratti della pennellata precisa, senza esitazioni, convinta e istintiva ed è
quella la sua bellezza estrema: parole schizzate a getto continuo e ispirate
dalla gamma di colori, di immagini e di forme di Chagall, Bosch, Goya, Picasso
e Brancusi. Vivide, intense, colorite, imprevedibili, naturali e spontanee,
improvvisata seguendo coordinate jazzistiche, le liriche di Ferlinghetti si
trasformano spesso in lunghe suite che hanno tutta la forma di intense odi,
come è Io aspetto,
forse lo snodo centrale A Coney Island of The Mind. Vitale nel suo essere
attaccata alla vita quotidiana, nel ribaltare uno dopo l’altro tutti i luoghi
comuni americani (“Siamo le stesse persone, ma ancora più lontane da casa, su
autostrade a cinquanta corsie, su un continente di calcestruzzo, scandito da
melliflui manifesti pubblicitari, che illustrano imbecilli illusioni di
felicità. La scena mostra meno carri di condannati a morte, ma più cittadini
scoppiati in auto dipinte, e hanno targhe strambe, e motori che divorano
l’America”) la visione A Coney Island of The Mind è quella di tutte le
altre voci della Beat Generation, “una specie di circo dell’anima” la cui
connotazione ha i lineamenti della dissociazione, della ribellione, del
dissenso e della profezia. Ferlinghetti la rende esplicita aggiungendo una nota
di particolare chiarezza agli intenti del suo personale manifesto: “Un’altra
alluvione sta per arrivare anche se non del tipo che ti aspetti. C’è ancora
tempo per colare a picco e per pensare. Voglio regredire in questa società.
Voglio essere come se fossi libero. Scendi a prendermi dolce cocchio. Non
aspettiamo che le Cadillac ci portino in trionfo nell’interno facendo cenni di
saluto agli indigeni come senatori romani nelle province portando l’alloro dei
poeti sulla fronte illuminata”. Qui la strada è rischiarata da Dante e Kafka,
René Char e Walt Whitman, Ezra Pound e Charles Dickens, Melville e Thoreau, e
poi da Yeats, Keats e infine da Henry Miller che ha ispirato il titolo,
ulteriore conferma che dietro una grande scrittore c’è sempre un insaziabile
lettore.
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