L’incipit
funziona da detonatore: “Cercò in seguito di ridurre l’episodio
a un’astrazione, a un incidente in un mondo d’incidenti, a uno
scontro di forze contrapposte, il paraurti della sua macchina e il
corpo fragile, curvo, annaspante di un ometto con la pelle scura e lo
sguardo folle, ma ci riuscì solo fino a un certo punto”.
L’episodio mette in collegamento due famiglie che abitano agli
estremi opposti del Topanga Canyon, nell’habitat indefinibile della
“città di quarzo” alias Los Angeles. Cándido e América vivono
accampati ai bordi delle strade dove sono arrivati per “trovare
qualcosa” e si ritrovano con le macchine che strappano l’aria
dai polmoni “e si lasciavano dietro un fetore di gas. I pneumatici
sibilavano. Le facce guardavano impassibili”. Aspettano un figlio
in un rifugio improvvisato, Cándido lavora come può, quando può,
per pochi dollari, ed entrambi sono costretti a subire ogni genere di
angheria: sono immigrati e clandestini, un duplice peccato mortale
che li costringe a una vita pericolosa, senza diritti, senza
speranze, al punto che América comincia a sognare di tornare a casa,
tra “gente come loro, di Teploztlán o di Cuernavaca, mettendo
insieme le risorse, vivendo come una grande famiglia. E, per quanto
piccola, per quanto sporca, con topi e scarafaggi e sparatorie sotto
le finestre, sarebbe stata sicuramente preferibile a quel posto”.
Delaney e Kyra Mossbacher (e il figlio Jordan) vivono dall’altra
parte del canyon, in un’area chiamata Arroyo Blanco Estates. Lei è
un’agente immobiliare, adora le case vuote. Delaney scrive per una
rivista di ecologia che, per contrasto, si chiama Wide Open Spaces e
in cui ricorda che “In America, certo, si stava tranquilli, ma era
folle pensare di poter ignorare il resto del mondo, il mondo della
fame e della perdita e della costante inesorabile degradazione
dell’ambiente. Cinque miliardi e mezzo di persone che divoravano le
risorse del pianeta come cavallette, e solo settantatré condor della
California sopravvissuti in tutto l’universo”. Dall’altra
parte, in fondo alla collina, il lusso (quando va bene) sono le uova
in tutte le salse, “huevos con chorizo, huevos rancheros, huevos
hervidos con pan tostado”. I Mossbacher mangiano fibre cereali e
vitamine a colazione, fanno barbecue con kebab di tofu, un modo
sarcastico di T. C. Boyle per ricordare un’ipotesi cosmopolita
ridotta a risolvere “la necessità e le esigenze e le piccole
irritazioni del quotidiano” perché “era questo il sistema
americano. Compra qualcosa. Sentiti bene”, ma l’impalcatura sta
scricchiolando. Sì, l’immigrazione è un’ondata che suscita
paura e T. C. Boyle, già vent’anni fa, non temeva di far
confessare a uno dei protagonisti che l’America “è una società
rabbiosa e frammentata, e non parlo solo dei nostri connazionali con
soldi o senza soldi, ma dei torrenti di umanità che affluiscono
dalla Cina, dal Bangladesh, dalla Colombia, scalzi, senza un mestiere
e senza niente da mangiare. Vogliono quello che hai tu, amico, mio, e
credi che verranno a bussare alla tua porta per chiedertelo con
gentilezza?” La domanda non è retorica. I proprietari della Arroyo
Blanco Estate stanno decidendo di costruire una barriera che li
difenda non solo dal flusso degli indigenti, ma anche dai pericoli
naturali, a cominciare dai coyote che, negli ambienti urbanizzati,
trovano spazi e prede in quantità. Il romanzo di T. C. Boyle spiega
alla perfezione le distanze e le differenze che definiscono le
frontiere, e non soltanto il border tracciato tra Stati Uniti e
Messico. Allora come oggi, nella fiction come nella realtà, l’idea
che un muro possa essere una soluzione non è “offensiva” come
dice Delaney, o antieconomica. E’ soltanto tardiva, quindi fuori
luogo, perché proprio come succede in América, invece di
evitare il conflitto, lo esalta. Attualissimo.
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