Dieci
anni delle lettere di Bukowski agli amici, agli editori, ai redattori
e ai biografi offrono uno spaccato molto articolato e complesso
dell’uomo, dello scrittore, del sognatore. A differenza della
limita immagine pubblica, emerge un’altra faccia, dalle lettere che
Bukowski inviava di volta in volta ai numerosi corrispondenti del suo
inner circle. Per quanto disordinato, per non dire caotico, il suo
epistolario è la prova concreta di una dedizione appassionata e
assidua. Forse Bukowski non era così indisciplinato come voleva
apparire, ed è probabile che non fosse nemmeno “un gran
lavoratore”, come l’ha definito spesso Fernanda Pivano, a
dispetto dei cliché che gli hanno incollato addosso. Di fatto, Urla
dal balcone misura una bella fetta della sua eredità, anche
perché Bukowski si concede con la consueta e disarmante sincerità,
e tra le tante ipotesi sull’essere o non essere, ci aggiunge una
sua peculiare definizione: “Non voglio recitare la parte
dell’ubriacone; è soltanto che le cose che mi ricordo fanno venire
una tale nausea”. Ecco, prese in gruppo, le lettere del Buk non
solo offrono una prospettiva sulla sua convulsa quotidianità, ma
danno forma anche ad una sorta di catalogo delle idee sulla scrittura
(“Ma la scrittura, ovviamente, come il matrimonio, le nevicate o
le gomme delle macchine, non dura per sempre. Capita che ti
addormenti mercoledì notte che sei uno scrittore, e ti svegli
giovedì mattina che sei tutt’altro. O magari vai a letto mercoledì
che sei un idraulico, e ti svegli giovedì che sei uno scrittore.
Questo è il genere di scrittori migliore che ci sia”), sulla
poesia (“Scrivere poesie non è difficile; è difficile viverle.
Siamo realistici: ogni volta che diciamo buongiorno a qualcuno senza
intendere davvero augurargli una buona giornata, siamo un po’ meno
vivi”) e sullo stile (“Per ottenere un buono stile bisogna
innanzitutto essere privi di pretenziosità, e ciò che è
pretenzioso cambia di anno in anno di giorno in giorno di minuto in
minuto. Dobbiamo stare molto attenti. Un uomo non diventa vecchio
perché si avvicina alla morte; un uomo diventa vecchio perché non
riesce più a distinguere il buono dal falso. Ok, basta discorsi
retorici”). Altrove è difficile trovare un Bukowksi altrettanto
teorico ed idealista, ma quello che sorprende è scoprirlo
attentissimo a schivare i luoghi comuni e le banalità anche nei
rapporti epistolari d'uso quotidiano. Infatti non si lascia
trascinare dalle polemiche, dall’euforia e dalle follie di quegli
anni bollenti e irrisolti (dal 1959 al 1969), decide di confermarsi
come il principe degli outsider (“Certifico la mia esistenza in
vita. Sono vivo e bevo birra”). e sembra quasi profetico quando
scrive: “Non abbiamo bisogno di abbattere un bel niente. E’ tempo
che cominciamo a raccogliere quello che resta, e a conservarlo con
cura”. Un Bukowski sincero, umanissimo e persino accorato, come
quando scrive a John William Corrington, il 27 maggio 1962: “Noi
andiamo avanti con le nostre piccole poesie, e aspettiamo”. Una
specie di autobiografia spedita al mondo intero, senza ricevuta di
ritorno.
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