L’incontro
lungo una stagione di Addie Moore e Louis Waters in Le
nostre anime di notte è la tregua
di una condizione, dell’essere due e non più uno, dell’essere
uno e non più due, l’idea di prendersi tutto il tempo che serve,
visto che è quello che rimane, e non soltanto, anche quella, come
direbbe Robert Frost, di “incontrarsi e passar oltre”: l’intimità
di una compagnia che è un’acrobazia tra le solitudini di un uomo e
di una donna. L’equilibrio rende la storia di Louis e Addie fragile
e delicata, ma tutt’altro che consolatoria: l’età che non chiede
nulla di più, se non affrontare il negativo del giorno (cos’è la
notte, in fondo?), rincorrendo una tranquillità che pare
impossibile, sfuggente, anche nel tentativo di “aggiustare le vite
degli altri”, che è sempre una missione complicata. Per questo,
per quanto il rapporto tra Addie e Louis si regga su una condizione
frugale e fortuita in sé, è una dichiarazione di indipendenza da
Holt, dalle sue logiche circoscritte e limitate. Kent Haruf guarda a
est e lì sposta anche piccoli dettagli, con i suoi personaggi che
però alla fine vanno a ovest, dove nel corso del romanzo avvengono
gli episodi più importanti. Il richiamo alle coordinate dell’aurora
e del crepuscolo è ambivalente e in questa metamorfosi
dell’orientamento, i giorni di campeggio fuori da Holt sono
intercambiabili con La felicità
ripaga in profondità quel che le manca in lunghezza
di Robert Frost. Il titolo induce già in tentazione e i paralleli
possono durare per (quasi) tutte le pagine: a volte sono palesi,
altrimenti sono connessioni più sottili e nascoste, partendo con “la
necessità di essere versati nelle cose campestri” per arrivare a
chiedersi “se pure possa esservi disegno, in così piccola cosa”.
Quello che collima è il senso di “accettazione” di cui è
pervaso Le nostre anime di notte,
che sembra il tentativo, peraltro riuscito senza eccezioni, di
trasporre in prosa tutta la Conoscenza
della notte di Robert Frost. Il suo
nome è dissimulato all’interno di una lista dei poeti letti “a
memoria” da Louis, ma è soltanto un primo indizio tra i tanti
disseminati da Kent Haruf. C’è una serie di coincidenze
impressionanti, e non soltanto per il naturale accostamento con il
proposito di “attraversare la notte insieme”, per cui comunque la
risposta più efficace è ancora del poeta, quando scrive che “il
miglior modo di uscirne è sempre di passarci”. E’ proprio nel
tono, in quel “suono del senso” che viene attribuito alle parole,
ai dialoghi e che viene donato al lettore, non imposto, non forzato e
neppure così semplice come potrebbe sembrare in apparenza, in
superficie, che l’associazione con Robert Frost diventa più
evidente come se Le nostre anime di
notte fosse un sinuoso bassorilievo
ricavato sulle linee delle poesie perché si svolge tutto nelle voci
soffuse, eppure così marcate, così definite, di due persone che si
parlano nel buio, tenendosi per mano. Quando quel legame che Addie e
Louis hanno costruito frase per frase, silenzio per silenzio, gesto
per gesto, con fatica, misurando i passi, contando le luci e le
ombre, viene interrotto dall’interno, dalla ricomposizione forzata
del concetto di famiglia, si intuisce che il valore delle parole è
mutevole e nel processo di affrontare “i piccoli fatti di ogni
giorno” si celano insidie velenose, e impietose. In soccorso, nel
finale, è necessario richiamare Robert Frost. Quando scrive che “per
il tempo che parlammo tu sembravi sorridere a qualcosa”, è
impossibile non mettere Louis all’inizio del verso e Addie alla
fine. E’ così che il commiato di Kent Haruf si rivela l’omaggio
al lettore attento e scrupoloso che per tutta la vita si è nascosto
dietro il mestiere dello scrittore.
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