Prima
l’America, okay, ma dato che “una bellezza delle parole consiste
nell’esattezza”, cosa rappresenta il vocabolo in sé? La
dimensione delle parole, più che l’uso (e abuso) è una felice
ossessione di Walt Whitman e la somma di note e appunti raccolti in
Un sillabario americano
assume un valore indipendente, singolare e speciale, una volta
collocata nell’attualità, dove peraltro sta benissimo. Walt
Whitman sapeva che “le parole non sono originali né arbitrarie in
se stesse” e, affascinato dall’insorgere di “nuove parole
richieste dalle nuove situazioni, dai nuovi fatti, dalle nuove
politiche, dalle nuove combinazioni”, con innato trasporto si è
lanciato in una serie di riflessioni, appunti e tracce nel tentativo
di definirne un profilo accettabile. Essendo un poeta, Un
sillabario americano non esprime
analisi, comparazioni, etimologie, esegesi, ma è un inno entusiasta,
che comincia così: “Le parole sono state creare per esprimere i
pensieri della vostra e dell’altrui mente, per esprimere tutte le
aspirazioni, i desideri profondi, le passioni, l’amore e l’odio,
la noia e la follia, la disperazione degli uomini per le donne, e
quella delle donne per gli uomini; per esprimere il carico e il
sovraccarico, lì nella testa che abbiamo posata sul corpo, che
elettrizzano il corpo che sta sotto la testa, o scorrono con il
sangue nelle vene; o si manifestano in quei curiosi e incredibili
miracoli che chiamiamo vista e udito; insomma, per esprimere tutte
queste cose, e molte altre simili, ebbene, è per questo, ripeto, che
sono state create le parole. Sono queste le parole che non sono mai
né nuove né vecchie”. Lo scopo di Un
sillabario americano è individuare
le parole tra le lingue, i gerghi, i dialetti che andranno a
confluire in un nuovo idioma, che solo in parte coincide con
l’origine anglosassone. Walt Whitman era già convinto che “tra
breve gli americani saranno il popolo che parlerà nel modo più
fluente e melodioso della terra, e saranno i più perfetti fruitori e
utilizzatori di parole. Le parole sono conseguenze del carattere e da
esso derivano origine, indipendenza , individualità”. Per quello
insisteva nel richiamare l’attenzione all’applicazione del
vocabolario, per esempio, invocando il rispetto della toponomastica
nativa perché i nomi “sono fatti, discendenza, maternità, fedi”.
L’equazione è fin troppo elementare: gli togli il linguaggio, li
rendi stranieri, li rendi schiavi. E’ proprio il senso di Un
sillabario americano, fin dal
provvisorio titolo, quello di “offrire allo spirito, al corpo,
all’individuo, nuove parole, nuove potenzialità del linguaggio...
Una sorta d’estensione americana e cosmopolita della libera
espressione della propria personalità (il meglio dell’America
consiste proprio nel migliore cosmopolitismo)”. Incredibile, a
dirsi, ma non ci sono parole migliori per descrivere il bisogno
disperato di un’altra America, dell’America ideale, di Walt
Whitman che in Foglie d’erba
scriveva “Guardate attraverso gli atlantici abissi, le pulsazioni
americane che raggiungono l’Europa, le pulsazioni dell’Europa che
debitamente rispondono”. Era profetico, in quelli che Ralph Waldo
Emerson chiamava “liberi e audaci pensieri”, e non di meno la
parte conclusiva del sillabario, che riporta a Brooklyn, all’infanzia
e all’albero genealogico di Walt Whitman è altrettanto pertinente
perché nella sua storia personale si riflette il canto di se stesso
e di una nazione, il sogno di qualcosa di nuovo, un’utopia per cui
“probabilmente sono necessarie altre parole”. Walt Whitman lo
diceva alla fine della guerra di secessione: valeva allora, oggi
ancora di più.
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