Si
fa presto a dire gotico o grottesco, che sono definizioni che
lasciano sempre il tempo che trovano. In realtà l’esplorazione di
Flannery O’Connor, “garantita” in un certo senso dalla fede,
dalla certezza assoluta della separazione tra bene e male, è
qualcosa di assolutamente originale e singolare: è un calarsi nelle
profondità dell’animo umano e nelle sue distorsioni con un
coraggio che pochi hanno avuto. Sempre sul filo del rasoio, con
un’energia ricavata dai contrasti, perché poi bene o male non sono
così distanti, i racconti di Flannery O’Connor funzionano come
parti di un insieme, e spesso sono serviti da apripista ai romanzi,
ma il più delle volte sono forme indipendenti che vivono di vita
propria. Sono constatazioni multiple dei dettagli, istantanee
brucianti, visioni, percezioni, figure in movimento, e sono gioielli
di precisione. Ogni particolare si incastra in quello successivo, uno
nell’altro, ogni piccola sfumatura, naturale, artificiale o umana
che sia, concorre a costruire la storia in un equilibrio cristallino
perché come diceva Flannery O’Connor “la narrativa opera
attraverso i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere
racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto
tempo e pazienza ci vogliono per convincere attraverso i sensi. Se
non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il
lettore non crederà a niente di quel che il narratore si limita
riferirgli. La caratteristica principale, e più evidente, della
narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può
vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. E’ questa una cosa che
non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine,
come un modo abituale di guardare le cose. Lo scrittore di narrativa
deve rendersi conto che non è possibile suscitare la compassione con
la compassione, l’emozione con l’emozione, o i pensieri con i
pensieri. A tutte queste cose bisogna dare corpo, creare un mondo
dotato di peso e di spessore”. L’ossessione per il corpo,
derivata dalla malattia, dalla sofferenza e, ancora una volta, dal
conflitto, è trasmessa come un’infezione ai protagonisti. Un
piccolo dato statistico: su 32 racconti, 20 cominciano con il nome di
un personaggio sparato già nelle prime righe dell’incipit, come se
Flannery O’Connor dovesse nominare, subito, fin dall’inizio, i
volti, le figure, i caratteri che determineranno la trama, il
racconto, la storia. Uomini e donne “spaventosamente ingenui”,
come li definisce, su tutti, in Brava gente di campagna e la
brutale predisposizione verso i personaggi porta di conseguenza verso
una forma di scrittura che è un concentrato urticante di
sovrapposizioni di toni, di sfumature, di linguaggi, dal gergo
popolare ai motti tradizionali, dalle pagine bibliche ai dialetti.
C’è qualcosa nella forma, estrema e tagliente quanto rigorosa, che
sfiora e graffia: nella sua essenza conta l’ambiente, rurale e
povero, le dimensioni famigliari sempre un po’ incompiute, la
vocazione a guardare dentro il buio. Un
modo di pensare, anche, perché “la narrativa riguarda tutto ciò
che è umano e noi siamo fatti di polvere, dunque se disdegnate
d’impolverarvi non dovreste tentare di scrivere narrativa. Non è
cosa abbastanza nobile per voi”. A volte è goffa e crudele nel
modo di esprimersi (non tanto nella forma, quanto nella scelta di
tempo), e quando deve parlare di sé e del suo lavoro sa essere
ancora più perfida, come scriveva in una delle lettere raccolte in
Sola a presidiare la fortezza: “Sono contentissima che i
racconti ti siano piaciuti, così ora non trovo sconveniente che a me
piacciano tanto. La verità è che mi piacciono più che a chiunque
altro e li leggo e li rileggo e mi sbellico dalla risate, poi mi
ricordo che li ho scritti io e un po’ mi vergogno”. Inimitabile.
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