Don
Birnam non è un barfly qualsiasi ed è molto distante dalle interpretazioni
alcoliche mostrate nelle infinite versioni dal cinema o della letteratura.
Mentre procede con il suo piano, (il suo unico piano: “Aveva raggiunto il punto
in cui c’era sempre un sola cosa da fare: bere, e bere ancora, fino a che non
arrivava l’amnistia; e il giorno dopo, bere ancora”) nella sua mente si affolla
tutta una congregazione di idee, propositi, fantasie, illusioni e miraggi
partoriti e guidati dall’euforia etilica. Una visione autoindulgente, a dir
poco, in cui domande e risposte coincidono: “Sono in grado, loro, di immaginare
la struttura di una storia come quella, anche solo la struttura, non la
stesura? Sono in grado, loro, di immaginare come qualcuno, pur essendo capace
di pensare alla struttura, pur essendo capace di padroneggiare sia la struttura
che la stesura, sono in grado di capire come qualcuno possa fallire, come possa
fallire semplicemente perché non riesce a scrivere, perché, come? Non c’era una
risposta, c’era solo il whisky”. Avvolto in queste considerazioni, il suo volto
si scontra con quello che vede nel liquore, nel bicchiere, in uno schermo ed è
sempre “un uomo dentro un bar della Seconda Avenue in un pomeriggio di ottobre
uguale a questo, un uomo uguale a lui, che beve un bicchiere di whisky, molti
bicchieri di whisky, e guarda il suo riflesso nello specchio del bancone”.
Charles Jackson è impietoso nel posizionare tutti i contrasti possibili davanti
e/o dietro Don Birnam, compresa la rettilinea ragnatela di New York, come se
fossero quinte ingannatrici di un moderno aggiornamento del dramma
shakespeariano. Fondali da cui non c’è scampo, non c’è soluzione, se non
arrivare in fondo: la stagione all’inferno di Don Birnam è una spirale in cui
l’alcolismo è causa ed effetto perché “ogni giorno che aveva bevuto cancellava
quello precedente, andava sempre così, sempre”. E’ il significato stesso del
titolo ed è tutto nel senso della sconfitta, del fallimento, della condanna che
matura con il tempo. La reiterazione diventa il ritmo della scrittura e della
vita, indissolubili e schiacciate l’una dentro l’altra in un’illusione che è il
distillato dei Giorni perduti:
“A forza di creare cose che non esistevano la sua immaginazione lo stava
portando sull’orlo del delirio, e lui avrebbe fatto meglio a rassegnarsi a
questa situazione. Stava cominciando a sentire e a vedere ciò che di solito
semplicemente pensava”. Ispirato, in parti uguali, come in un cocktail, da “un
terzo della storia era basato su esperienze che aveva vissuto lui stesso, un
terzo sulle esperienze vissute da un suo amico di cui aveva seguito da vicino
la carriera di alcolizzato e un terzo era pura invenzione”, Giorni perduti è un avviso di garanzia per tutti “gli
inadempienti, gli inaffidabili, gli immaturi, i nostalgici, gli eterni bambini”
ed è immacolato, fin troppo esplicito, nel raccontare la pericolosissima storia
d’amore con “una bella bottiglia da un litro. Grande come la vita e due volte
più vuota”. Con gli omaggi del fantasma di Francis Scott Fitzgerald, che
aleggia sornione su tutti i Giorni perduti di Don Birnam alias Charles Jackson.
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