Le
biciclette bianche affronta,
attraversa e racconta gli anni sessanta e la musica, che li ha distinti per
sempre e come nessun altro momento nella storia della civiltà moderna, con il
tatto, la premura e l’ironia di Joe Boyd. Manager, produttore, discografico,
testimone colto, appassionato, raffinato e (più di tutto) partecipe, Joe Boyd
era lì, sul luogo del delitto, durante la rivoluzione copernicana di Bob Dylan
a Newport nel 1965 o mentre i Pink Floyd emergevano come una visione lisergica
all’UFO di Londra ed era ancora lì quando, ormai al crepuscolo degli anni
sessanta, prese per mano un fragile e geniale songwriter destinato a diventare
(per sempre) Nick Drake. Il periodo potrebbe indurre a immaginare un retrogusto
di nostalgie, di rimpianti o di celebrazioni, invece Joe Boyd si rivela un
narratore abbastanza accorto e con quel minimo sindacale di consapevolezza
(anche qualcosa in più) per non lasciarsi trascinare dagli eventi e dalla
naturale inclinazione a deformare i ricordi e le biografie, compresa la
propria. Le biclette bianche è più
vicino a uno stralcio di narrativa che a un saggio o a memoir e se la musica è
l’elemento principale, Joe Boyd ricorda che il terremoto è arrivato perché “c’era
la percezione che nulla fosse stato definito, che un presupposto si potesse
sfidare. I miti affrontavano regolarmente i potenti e spesso vincevano, o
almeno ci provavano. Studenti senza debiti con tempo a disposizione costrinsero
il Pentagono a smettere di impiegare i ragazzi di leva americani come carne da
cannone e cambiarono il paesaggio politico della Francia”. Le biciclette
bianche partono da questo magma e Joe
Boyd comincia la sua carriera proprio in Europa, dove si trova ad accompagnare
Coleman Hawkins poi, tra il 1966 e il 1974, produce tra gli altri l’Incredible
String Band, il primo singolo dei Pink Floyd, Nick Drake, Desertshore di Nico e John Martyn fino a Dueling Banjos ovvero la colonna sonora di Un tranquillo week-end
di paura, a suo modo un ritorno alle
radici. Attorno a questi dischi e a questi nomi Le biciclette bianche prendono forma come istantanee di un momento
analogico, scandito da conversazioni logorroiche, assegni in bianco, tumulti
personali e collettivi. Sono anni di grandi movimenti ideali e Joe Boyd non
perde l’occasione per un’analisi approfondita rivelando, da suo punto di vista,
che “sotto la superficie, gli anni sessanta progressisti nascondevano molti
aspetti di sgradevolezza: il sessismo, il conservatorismo, il razzismo e il
conflitto fra diverse fazioni. In realtà, nulla di stupefacente. L’idea che le
droghe, il sesso e la musica potessero trasformare il mondo fu sempre un sogno
molto ingenuo”. Una visione molto lucida, corroborata da una lunga teoria di missing
in action che Le biciclette
bianche non dimentica perché, come
scrive ancora Joe Boyd, “ottenemmo molto, prima che le autorità capissero come
capitalizzare la nostra autodistruttività”. Con grande sincerità, Le
biciclette bianche dice che finita la
rivoluzione, è rimasta la musica: non è poco, non c’è molto altro. Indispensabile.
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