L’esordio di John Williams è
imperniato sulla figura di Arthur Maxley, giovane dissoluto e malinconico che
vive “un equilibrio troppo precario”. Il più delle volte si rifugia nei ricordi
e i momenti più belli restano sempre “il tempo perduto. Il tempo dell’estate,
quando le foglie degli alberi si intrecciano nella luce iridescente del sole”
e, di conseguenza, “quando sei molto giovane, quando la vita è una semplice,
perfetta successione di giorni dorati”. La sua esistenza, scandita da una
routine di alcol, noia e fantasmi è “una nuvola appiccicosa di squallore quasi
tangibile” fino a quando non si avventura nell’incontro con l’altro. Nulla,
solo la notte diventa la progressione
esponenziale di “un incubo del presente”, di cui Arthur Maxley ha
consapevolezza solo perché “mentre camminava lungo la strada traboccante di
gente in quella sera d’estate inoltrata, lo colse quella solitudine particolare
che si prova solo in mezzo a una moltitudine mostruosamente anonima,
quell’incomparabile sensazione di puro isolamento che non si può avvertire in
altre circostanze. Una figura solitaria, nella distesa immutabile del deserto,
appare meno isolata di un uomo che si perde nell’infinità di una città
affollata. Chi è solo nel deserto resta comunque consapevole del proprio peso,
per quanto minimo, e della relazione che mantiene con lo spazio circostante. Ma
chi è isolato in mezzo a uno sciame di gente perde coscienza di se stesso come
individuo”. Quasi per un’ineffabile reazione chimica, il contatto con il
prossimo genera una serie di esplosioni imbarazzanti negli incontri con l’amico
Stafford Long, con il padre e, infine, con l’avvenente Claire Hegsic. In
particolare, è un dialogo con lei ad essere eloquente, nella sua perfezione.
Lui le dice: “Sono un parassita”. Claire Hegsic gli risponde: “Sono sicura che
lo fai bene”. Sono tutti personaggi che prendono forma all’improvviso come
apparizioni: una congrega di fantasmi e miraggi avvolti in un’atmosfera
onirica, sonnolenta, una nebbia di emozioni che si gonfia in Arthur Maxley come
“la somma di tutte le sue emozioni represse, amore, odio, pietà, paura e
orrore, appagamento, noia, bramosia, tedio, passione, tutto, e quell’ondata
torrenziale era troppo orribile perché potesse arginarla”. Già a vent’anni,
John Williams mostrava una straordinaria capacità di raffinare la scrittura
attorno ai personaggi e non è difficile trovare nell’immobilità emotiva di
Arthur Maxley quelle caratteristiche che lo porteranno poi alla definizione
superiore di Stoner. La distanza
da Nulla, solo la notte è palese
e naturale (ci sono più di vent’anni tra i due romanzi), ma John Williams aveva
già intuito che “la peculiarità del sogno è che il sognatore è privo di
potere”. E’ l’inizio di Nulla, solo la notte e rivela, persino con un certo candore, il limite
estremo e insieme una delle più grandi opportunità della scrittura in sé.
Essere al servizio di un sogno, che resta una materia fluttuante e disordinata
come l’anima di Arthur Maxley.
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