L’assunto da cui si dipana
l’analisi di Philip Slater è che la cosiddetta civiltà
occidentale è da sempre espressione di un modello autoritario che
viene confuso con un surrogato di democrazia. Philip Slater non pone
questioni giuridiche, morali o politiche. Le analisi sono
comportamentali, storiche e, in ultima istanza, antropologiche,
perché “l’unica cosa sulla quale possiamo contare nelle vicende
umane è che le cose cambiano e in democrazia cambiano più
velocemente che in qualsiasi altra condizione, raramente nella
direzione che ci aspettiamo e sempre in quella che dispiace a
qualcuno. Il vivere in un contesto realmente democratico richiede
un’accettazione costante del movimento e del cambiamento,
un’abilità ad accettare l’imperfezione permanente, lo sviluppo
cronico. Questo, d’altronde, è ciò che realmente è la vita”.
La prima distinzione, essenziale, è dunque tra la funzionalità dei
regimi autoritari e quella dei sistemi democratici e Philip Slater
comincia dagli sviluppi degli eventi bellici nel corso della storia
per raccontarne la profonda influenza sul linguaggio e
sull’immaginario in generale. Questo perché, come è ovvio, “la
formazione militare, così come viene normalmente impartita, richiede
la sistematica erosione di qualsiasi credo, valore e pratica
democratica”. Nelle catene di comando e nella rigidità della
disciplina, ci sono già tutti gli elementi di immobilismo dei
sistemi autoritari visto che “una burocrazia è una burocrazia, e
la sua inettitudine titanica la tradirà ovunque cerchi di
nascondersi”. L’evidenza dei limiti autoritari, in tutti i
segmenti scandagliati, dall’istruzione fino all’invadenza del
mezzo televisivo, è ridondante e si scontra d’altra parte
nell’esigenza del dissenso, perché, come scrive Philip Slater, “il
conflitto è semplicemente l’espressione attiva della differenza, e
una parte essenziale della nostra evoluzione”. Una precisazione si
rende necessaria anche all’interno della concezione stessa di
democrazia, che non è intesa come rappresentanza e/o mandato
elettorale, ma piuttosto come “sistema di organizzazione delle
relazioni umane”. Philip Slater non manca di sottolinearne le
fragilità implicite, dato “la democrazia non ha niente a che fare
con il carisma, le abilità oratorie, la capacità di stare dritti,
saldi e al posto giusto; ha invece a che fare con la capacità di
trovare modi per comporre i bisogni e i desideri conflittuali”, ma
anche la naturale propensione al rinnovamento, alle trasformazioni,
alla metamorfosi. Il suo modello di valutazione procede attraverso i
vari livelli di attuazione e comprensione della democrazia, che
rimane la grande incompiuta, ovvero Un
sogno rimandato. La definizione del
titolo riguarda in modo esplicito l’american way of life, ma in
termini impliciti tutte le cosiddette democrazie occidentali, che
vivono e subiscono le stesse contraddizioni e l’assuefazione
alle logiche autoritarie, perché “il carattere multinazionale
delle industrie moderne tende ad andare oltre l’influenza
democratica, dato che nessun singolo governo può esercitare un
effettivo controllo”. L’estrapolazione è più attuale adesso di
allora anche se molte della valutazioni raccolte da Philip Slater
erano valide nel 1991, in un momento di grandi speranze seguito al
crollo del muro di Berlino, e lo sono ancora oggi visto che “una
società democratica è decentralizzata, eppure la maggior parte dei
nostri business quotidiani avviene all’interno di organizzazioni
immense, turbolente e autoritarie, sulle quali non abbiamo quasi
nessun controllo”. In concreto, quello che resta di Un
sogno rimandato è solo “una
democrazia parziale”, rispetto a un’idea molto più articolata,
ovvero l’intuizione che non funzioni né come dovrebbe, né come ci
viene propinata.
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