Nelle
sue lezioni di letteratura Bernard Malamud diceva di John Updike che
“una delle cose migliori che abbia scritto sia Il colpo di
stato, una storia di invenzione ma basata su molte letture di
miti africani, storia africana, geografia dell’Africa, oltre alla
sua idea originale”. Ambientato in un immaginaria nazione
subsahariana, il Kush alias il Noire, Il colpo di stato è
imperniato attorno alle trame e alle peripezie del colonnello Hakim
Felix Happy Ellelloû per cui vale la definizione di John Updike: “Un
capo è uno che, per pazzia o per bontà, accetta di assumere su di
sé i guai di un popolo. Vi sono pochi uomini così pazzi; di qui,
quel nonsoché di irregolare che ha sempre un leader”. Le quattro
mogli di Ellelloû distinguono anche le fasi, non lineari, in cui si
articola Il colpo di stato: Kandongolimi, sposata all’età
di sedici anni, Candace alias Candy il rapporto con l’America,
attraverso la sua famiglia, poi Sittina e Sheba. A cui va aggiunta
Kutunda, ammaliante e analfabeta, arriverà ai vertici del governo,
dove intuirà che per il potere “leggere e scrivere era solo
condiscendenza”. Il quadro in cui Ellelloû matura Il colpo di
stato è questo, a cui vanno associate le circostanze specifiche
dato che “l’aria del Kush è trasparente, non vi sono segreti,
solo reticenze”. Ecco che Edumu, il re a cui tagliano la testa, e
l’esecuzione del re, come spartiacque. Le motivazioni sono
ambivalenti e adattabili, ogni volta che Il colpo di stato
prevede nuovi protagonisti: “Il suo regime era corrotto, sia per
quanto concerneva la sua personale tirannia, era sbadatamente crudele
all’antica, sensuale maniera, sia per l’ideologia borghese dei
suoi ministri, che, per conservare la loro ricchezza in seno a
un’élite pateticamente non rappresentativa, vendevano agli
americani ciò che i loro padri avevano venduto ai francesi, i quali,
quanto a questo, credevano ancora di esserne padroni”. La
confusione tra rivoluzioni di ispirazione religiosa o socialista sono
fallimentari perché “ci vuole una montagna di mito per produrre
anche un solo granello di differenza” e il ciclo si compie
inalterato, non c’è vendetta, ci sono “riallineamenti”, e gli
interessi stranieri, così riassunti: “I doni portano uomini, gli
uomini portano fucili, i fucili portano oppressione. L’Africa ha
già subito questo ciclo troppo spesso”. Il linguaggio forbito,
colto, affascinante nella sua ricchezza, che John Updike trova sempre
uno sbocco naturale nel ritmo delle frasi, negli strati della storia
che scivolano uno sopra l’altro. Molto aderente alla realtà nel
definire “un nuovo concetto del tempo, la terribile idea della
storia, l’idea di una rivelazione che inesorabilmente si allontana,
lasciando noi a vivere e morire senza scopo, in stato
d’insensatezza”, il racconto è farraginoso come il viaggio nel
deserto di Ellelloû e Sheba, con strati di lingue che si invadono,
con “l’effetto di goffe maschere”, immaginifico e delirante,
valga su tutte la scena nella base sovietica nel deserto con i
vettori caricati di sacchi di sabbia solo per far spendere agli
americani l’equivalente in un altro angolo sconosciuto di roccia e
di vento. Il colpo di stato di Ellelloû innesca una reazione
a catena, le congiure si susseguono senza soluzione di continuità,
“il popolo guarda in alto, e deve vedere qualcosa”, solo che
ritrova la testa del re che ha ripreso a farneticare. Avvolgente,
paradossale, cosmopolita, a distanza di anni, Il colpo di stato
è ancora un vivido affresco dell’Africa nel corso della cosiddetta
guerra fredda, della mentalità coloniale di cui è stata succube
prima, dopo e ancora oggi, e una parodia del potere assassino e
suicida che si perpetua per partenogenesi, tanto “non c’è nulla
da rivoluzionare”. Da leggere, rileggere e studiare.
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