Crisi?
Quale crisi? Pirateria? Quale pirateria? Sembra che Stephen Witt stia
dicendo: è successo qualcosa di epocale nell’industria
discografica negli ultimi vent’anni (sì, è così), ma cosa? Free
indaga con parecchi suggerimenti, tantissimi
riscontri, un’idea tutto sommato coerente del giornalismo
d’inchiesta e un ottimo piglio narrativo, che non guasta.
Dall’inizio alla fine, la trama è annodata alla vita, alla morte e
alla resurrezione dell’ mp3, raccontata in tutti i suoi particolari
da Stephen Witt, come se Free
fosse La stella di Ratner
di Don DeLillo. E’ giusto, ma è come trovarsi in un labirinto di
sensi unici e di domande paradossali. Valido per un romanzo, nella
realtà abbastanza ambiguo: l’architettura di Free
è elegante, colta, scorrevole, ma traballante a dir poco. Perché
multinazionali che producono prodotti fisici finanziavano la ricerca
di formati digitali compressi? Perché l’industria discografica è
passata dall’euforia del compact disc all’attuale diffusa
malinconia con un genocidio di posti di lavoro, ma lasciando
inalterati gli stipendi (milionari) dei manager? Per dare una
risposta a quest’ultima domanda, Stephen Witt segue la figura
emblematica di Doug Morris, executive che nel corso della lunghissima
carriera è stato sempre (ed è) al timone principale, una parabola
rappresentativa di alcuni vizi capitali dell’industria
discografica. Nel farlo, distribuisce un po’ di aneddoti, un po’
di notizie, fa un gran lavoro di ricerca, ma quello che c’è di
interessante, oltre alla pirateria, lo lascia a livello di allusione.
Per esempio, cita il procuratore di New York Elliot Spitzer che ha
costretto al patteggiamento extragiudiziale le principali etichette
discografiche perché sono state responsabili di aver corrotto le
stazioni radiofoniche (che novità, la payola). Ancora di più si
scopre che è stata prassi assumere interi call center per bombardare
di telefonate le emittenti televisive per far trasmettere questo o
quel brano. Per non parlare di spropositati budget per il marketing e
la promozione, tutto magari per dischi inutili come quello di Lindsay
Lohan, comunque votati al fallimento (artistico e commerciale). Lì
si vede che la pirateria è soltanto un placebo alla miopia
(eufemismo) dell’industria discografica nei confronti del digitale
prima, e della rete poi. All’avvento del compact disc, tutto quello
che i discografici sono stati capaci di fare è stato prendere un
catalogo e rivenderlo, e sono stati anni d’oro. Con la rete, per
loro stessa ammissione, non hanno mai saputo come fare. Per dire, il
massimo del successo ottenuto in questo senso da Doug Morris è stato
Vevo, un canale che in sostanza è il vecchio catalogo di videoclip
reso disponibile per vie digitali. Stesso meccanismo del compact
disc, fantasia al comando, sotto lo zero. Altri sono stati più
rapidi e scaltri, primo tra tutti Steve Jobs, uno che ha capito a
fondo i meccanismi del pop e infatti prima con gli mp3 nell’iPod,
poi nell’iTunes ha fatto saltare il banco. Non a caso, se si vuole
prendere una data per ricordare un punto di non ritorno è stato
quando gli U2 hanno regalato l'irrilevante Songs
Of Innocence a mezzo miliardo di persone
completando de facto la metamorfosi della musica, che infine è
diventata il gadget di lusso dell’hardware e del software. Questo è
il dettaglio vitale e mortale che sfugge a Stephen Witt, e per giunta
con un libro chiamato Free.
Altro che pirateria. E’ il mercato in tutto il suo splendore,
decadenza compresa.
Nessun commento:
Posta un commento