Il
baricentro della trilogia della pianura si sposta nel secondo capitolo verso i fratelli McPheron, Harold e Raymond. Attorno a loro
due e a Victoria Robideaux e alla figlia Katie si coagulano, secondo
vie casuali e non, le gesta della tristissima famiglia Wallace,
Luther e Betty (i genitori) e Joy Rae e Richie (i figli),
dell’assistente sociale che li segue, Rose Tyler, di DJ Kephart e
del nonno Walter, di Dena ed Emma e della madre (Mary Wells) e volti
già apparsi, come Maggie Jones che, anche davanti a tanto
disordine e a tanta solitudine, non si scompone e dice: “Ho già
visto un sacco di casino in vita mia”. Capita a tutti e per ognuno
è un piccolo tassello, la battuta di un ritmo, e succedono così
tante cose nello “spettacolo della vita” di Holt, dove non
succede niente, ma è tutto importante perché, come dice Raymond
McPheron “ci sono cose che non si superano mai”. La
concatenazione degli eventi è tale che, raccontando anche un singolo
episodio, si rischia di rivelare tutta la trama di Crepuscolo. Merita di essere ricordato almeno il passaggio in cui i piccoli Dena e DJ si ricavano
uno spazio in una baracca costruita e arredata con i resti trovati
per le strade di Holt. E' dentro quelle sgangherate pareti che “per quel breve momento ciò che succedeva nelle case da cui
venivano sembrò avere scarsa importanza”. Quel poco di salvezza è lì e si tratta di una
distanza universale: più che l’America, Holt è la provincia, dove
tutti si conoscono e all’emporio ti chiedono se paghi subito o se
te lo addebitano sul conto della fattoria. In Crepuscolo,
quasi a rimarcare i confini della trilogia, la mappa di Holt e dei
dintorni che si allungano su tutti i quattro punti cardinali (Fort
Collins, Norka, Brush, Phillips, Fort Morgan, Greeley via via fino a Denver che resta molto lontana)
emerge come un bassorilievo. Anche i ritrovi abituali,
persino le strade e le campagne, ricorrono con maggiore frequenza,
come a confermare che “contavano quasi soltanto le consuetudini e i
capricci del momento”. Sono punti di riferimento nello spazio e
così nel tempo, perché come scriveva Simon Shama in Paesaggio e memoria, “il paesaggio, del resto, può essere intenzionalmente
disegnato per esprimere le virtù di una determinata comunità
politica e sociale”. Il genius loci di Crepuscolo e per estensione
di tutta la trilogia della pianura ha il volto di tutti i volti, la
vita di tutte le vite e Kent Haruf è stato straordinario a renderlo
trasparente con una “visibilità” come la intendeva Italo
Calvino che è l’altra faccia, quella in ombra, del suo
raffinatissimo stile. Parafrasando Dante nel corso delle sue Lezioni
americane, Calvino diceva che “la fantasia è un posto dove ci
piove dentro”, e a Holt piove, nevica, tira vento, gli unici
elementi degni di nota sono quelli meteorologici, insieme ai
movimenti del cielo in lontananza, all’orizzonte. D’altra parte
l’economia rurale dipende dalle stagioni e dalle declinazioni
climatiche e carpire le sfumature è l’elemento trainante, in fondo
la cifra stessa dell’abilità principale di Kent Haruf. Ed è leggere nei
paesaggi, nelle luci e poi nei gesti e nei dialoghi che si innestano
l’uno nell’altro, trasformandoli in strati ben accuditi di parole
che formano le storie. L’equilibrio si vede anche nella forma dei
paragrafi, che si modellano con armonia e si incastrano uno
nell’altro, senza soluzione di continuità. Tirando le somme per Crepuscolo e allargando l’ispezione all’intera trilogia
della pianura, il modello di riferimento e l’influenza più
evidente, riconosciuti a sua volta da Kent Haruf, vanno cercati in
William Faulkner, in particolare, quello di Mentre morivo,
dove scriveva: “è come se lo spazio che ci separa fosse tempo: una
qualità irrevocabile. E’ come se tutto il tempo, smettendo di
scorrere dritto davanti a noi in linea decrescente, corresse ora
parallelo fra noi”. La stessa natura di Holt (e dintorni) riporta
alla contea più famosa (per quanto altrettanto immaginaria) della
letteratura americana, quella di Yoknapatawpha e, sì, il termine di
paragone resta quello. Solo che Kent Haruf lo stempera con più
speranza e meno angoscia e anche una sua delicatezza che si traduce,
prima di tutto, nell’invenzione di un nome infinitamente più
accessibile, scelta di cui, tra l'altro, gli saremo grati per sempre.
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