La scoperta della “gran cosa”, come Henry James chiamò la morte quando venne la sua ora, avviene per Thomas Wolfe attraverso tre vittime dichiarate (in realtà ce ne sarà una quarta e ce ne sono milioni tutti i giorni) il cui grave destino si manifesta all’improvviso nelle strade di New York. La prima vittima è un ambulante italiano travolto in un incidente stradale che “oscurò subito lo splendore dell’aria e la radiosa magia della primavera, scacciando ogni gioia e speranza dai cuori degli uomini presenti, perché si manifestò come una selvaggia e inappellabile condanna”. La seconda vittima è un homeless il cui volto, al momento della morte, svela “una storia fatta di orizzonti solitari e lunghe distanze, ruote pesanti e luccicanti strade ferrate, ruggine e acciaio, risse sanguinose e incolte terre selvagge”. Il nulla, in un parola, che la folla raccolta in cerchio attorno al corpo senza vita, una presenza costante in Orgogliosa sorella morte, archivia senza tanti patemi perché “d’altra parte si sa, è la fine che fanno. Presto o tardi, finiscono tutti così. Succede sempre con gente come questa”. La frase che vorrebbe essere un esorcismo suona più sbrigativa che cinica e Thomas Wolfe affida all’anima della città stessa, le parole di un’elegia più efficace: “Non sono né gentile, né crudele, né amorevole, né vendicativa: sono solo indifferente a tutti voi, perché so che altri vi sostituiranno quando ve ne sarete andati, e altri nasceranno quando morirete, e si leveranno a milioni quando sarete caduti, e la città, l’immortale città, risorgerà per sempre riversandosi come una grandiosa marea su questa terra”. La morte rientra nei confini della città e la città si nutre del fluire della vita e della morte dei suoi abitanti celebrandoli a quella che Thomas Wolfe chiama “l’eterna brevità” dei giorni che si moltiplicano tutti identici e tutti diversi. La sua scrittura, anche nella succinta natura di Orgogliosa sorella morte, è un trionfo di parole ed emozioni che collimano nel fissare l’essenza della città agli attimi finali dei suoi abitanti. Con una prosa eloquente: “E mi sembrava che tutta la varia e complessa vita su questa nostra terra fosse davvero come un’immensa fiera. Si ergevano le impalcature per ospitare le bancarelle, i chioschi, le giostre e tutti gli altri luoghi di divertimento. Era lì che gli uomini compravano e vendevano e commerciavano, mangiavano, bevevano, odiavano, amavano e morivano, in un susseguirsi di mode che loro credevano eterne. Ecco dunque l’antica, eterna fiera, ogni notte vuota e deserta e poi di nuovo pullulante di gente e facce nuove e folla brulicante tra le innumerevoli stradine: gente che nasce, invecchia, si ammala e infine muore”. Quello che Thomas Wolfe perpetua come una sfida con Orgogliosa sorella morte, e la sua influenza nella letteratura americana è qui tangibile più che mai, è “qualcosa di nobile, gretto, volgare, e insieme eroico, raro e glorioso di cui siamo partecipi tutti noi umani”. Obbligatorio riscoprirlo.
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