E’ con Il nuotatore, ritratto di un personaggio che vuole attraversare la contea solcando le piscine e si scontra, alla fine, con una casa disabitata, metafora di un capolinea evidente e inevitabile che John Cheever traccia un’ambiziosa cartografia di quell’ambiente suburbano, lo stesso che hanno raccontato Richard Yates (con più acidità) e Richard Ford (con più dolcezza) che costituisce un luogo della mente in cui è capace di navigare e affrontare con inaudita precisione. Gli Halloran, i Westerhazy, i Bunker, gli Hammer, gli Howland, i Crosscup, i Graham, i Lear, i Welcher, i Lindley, i Levy, i Towers, i Merrill, i Sachs, i Clyde: l’elenco fornisce le coordinate di un paesaggio in cui ogni piccola variazione del tran tran quotidiano diventa una dramma. Se in Un giorno qualsiasi, la caccia a uno sfortunato procione si trasforma persino in qualcosa di epico, la mancanza di un elettrodomestico (il surgelatore in Un giorno qualsiasi) o la sua presenza (la radio, ovviamente, in Una radio straordinaria) determina la qualità della vita dei personaggi. Una radio straordinaria può andare bene fino a quando trasmette Mozart, Chopin, Beethoven (manca un po’ di rock’n’roll, bisogna dirlo), ma quando intercetta tra le onde dell’etere (attraverso una commedia) dialoghi che sembrano gli stessi dei protagonisti diventa un pericolo e nelle domande di Irene la paura di identificarsi è tangibile: “La vita è troppo spaventosa, troppo sordida e angosciosa. Ma noi non siamo mai stati come loro, vero tesoro? Lo siamo stati? Voglio dire, noi siamo sempre stati buoni e sensibili e affettuosi l’uno con l’altro, non è vero? E abbiamo due bambini, due bellissimi bambini. La vita non sordida, vero che non lo è, tesoro?”, e la risposta del marito è ambiguità e ovvietà coincidono al millimetro ed è in questa chirurgica precisione tutta la forza di John Cheever. Altrimenti compresa fino in fondo dall’immancabile Fernanda Pivano che nella prefazione ha scritto: “In questo clima sofisticato ha continuato a descrivere il mondo che lo circondava, da moralista ostinato, generoso, elegante, divertito, interessato al perbenismo e alla rispettabilità dei suoi concittadini. Con la sua prosa lapidaria e la sua narrazione raffinata e sempre più compressa, ha raccontato storie di feste sui prati, o fragili avvenimenti di pendolari, o avventure di persone apparentemente tranquille, di abitudini serene, pacate, che parevano felici. In realtà nei suoi personaggi, la serenità era soffocata, la tranquillità repressa, la felicità artificiale, e questo rendeva più commoventi le vicende conformiste dei suoi benestanti delusi, frustrati, dolenti; in realtà della borghesia descriveva i problemi oltre che i costumi in racconti tristi, intrisi di pessimismo e carichi di una disperazione tanto più drammatica quanto più immersa sotto la superficie levigata delle false apparenze”. L’analisi non fa una piega ed è la traduzione puntuale di quello che John Cheever chiamava “l’amore per la luce e la decisione di tracciare una catena morale dell’essere”. Missione compiuta.
giovedì 30 giugno 2011
John Cheever
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