L’apologia del clown secondo Henry Miller parte da una circus story per approdare a una visione anche urticante. Il circo, va da sé, è una rappresentazione perfetta, se non proprio un riflesso della moderna vita delle immagini e della comunicazione, e nessuno più del clown ha il potenziale per interpretarla fino in fondo. Una maschera che ha solleticato pittori visionari come Miró, Chagall, Seurat che, a loro volta, hanno fornito il background ideale per le limpide linee di Henry Miller. Il suo tratto in Il sorriso ai piedi della scala è più rarefatto e plastico dei florilegi che appariranno in seguito ed è perfetto nella costruzione della personalità combattuta e paradossale del clown. L’osservazione della vita del circo, una metafora che è sempre funzionale, si evolve e diventa qualcosa in più perché “il circo è un breve spazio d’oblio separato dal resto del mondo” e Henry Miller sfrutta l’ispirazione pittorica e surreale per raccontare la sua verità, la sua realtà. In uno snodo fondamentale della sua carriera, Il sorriso ai piedi della scala è un breve e sorprendente gioiello lirico, molto coraggioso nel formato e superbo nella scrittura, raffinata ai limiti della poesia in tutti i suoi passaggi ed elevata nel lasciarsi impressionare dal personaggio del clown, vero e frutto della fantasia nello stesso momento. Come precisa Henry Miller nella postilla finale a Il sorriso ai piedi della scala: “In parole, in immagini, in atti, tutte queste benedette anime che mi hanno tenuto compagnia hanno dato testimonianza dell’eterna realtà della loro visione. Un giorno il loro mondo quotidiano diventerà il nostro. Anzi, è già il nostro, solo che siamo troppo immiseriti per avere il coraggio di proclamarlo apertamente”. Il clown “è un poeta in azione. E’ lui stesso la storia che interpreta. E la stori è sempre uguale: adorazione, devozione, crocifissione” e Augusto, il pagliaccio di Henry Miller è una riflessione sulla natura dell’artista, sulla complessità di un’identità che deve convivere con la contraddizione di essere se stesso soltanto con una maschera, visto che “la sua vera tragedia, cominciava a capire, stava nel fatto di essere incapace di comunicare agli altri quella scoperta: che esisteva un altro mondo, un mondo al di là dell’ignoranza, al di là del caduco, al di là del pianto e del riso”. Anche nella difficoltà di distinguere il clown da “una dirompente tempesta d’oltraggi”, attraverso il personaggio ispirato dalla realtà del circo da quello disegnato seguendo i tagli surreali, Henry Miller riesce a sintetizzare un’indicazione fondamentale: “Sii te stesso, soltanto te stesso: è una gran cosa. Ma come fare, come arrivarci? Ecco il lazzo, la piroetta più difficile di tutto il repertorio. Ed è difficile proprio perché non ci vuole niente. Non hai da cercar d’esser questo o quello, grande o piccolo, furbo o maldestro… Mi senti? Fa’ quello che ti capita. Fallo con buona grazia, s’intende. Perché non c’è nulla che non abbia importanza. Nulla”. Vale per il clown e per tutti gli artisti (e non solo).
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