Il Matterhorn (che poi sarebbe il monte Cervino) è il nome dato dai topografi militari americani a una cima strategica in una zona di confine tra il Vietnam e il Laos. Uno dei tanti punti sulle mappe da combattimento per cui, all’alba del 1969, generali e colonnelli avrebbero fatto qualsiasi cosa, a partire con lo spedire al massacro i propri soldati. In Vietnam “la guerra era diventata un affare troppo tecnico e complesso, e quella guerra in particolare era diventata troppo politica” visto che ricalcava, in terra straniera, le dinamiche dell’intera America. Una guerra di attrito, più che per il controllo del territorio: il body count dei nemici è artefatto; quello dei marines è impietoso. Le colline disseminate di cadaveri, la nebbia, i monsoni, la malaria: il paesaggio viene dipinto all’infinito, uno strato dopo l’altro, sempre uguale, e un sudario di morte ricopre tutto e tutti: alla fine “la giungla e la morte erano le sole cose pulite di quella guerra”. Karl Marlantes non perde un attimo, nemmeno una riga per esprimere una sua valutazione, un’opinione: Matterhorn è tutto azione perché è l’azione che conta in guerra, non il movente. Illustra, racconta e spiega, anche a costo di ripetersi (spesso), i meccanismi brutali, le contraddizioni, le diatribe, gli errori e gli atti di coraggio che portano i marines a lottare per ogni singolo centrimetro di fango e di merda. Lo stesso protagonista di Matterhorn, Mellas (Wayno è il nome che viene pronunciato di rado), soffre la sindrome del sopravvissuto. Ha visto i suoi migliori uomini, i suoi migliori amici, morire senza nemmeno poter chiedere aiuto. Ha subito ordini e contrordini (o ordini frammentari, che è più specifico e rende meglio l’idea). Deve fare attenzione alle tensioni razziali, sempre più evidenti e pericolose nonché ambigue, infine. Ed è costrettto a scoprire che “vivere, soccombendo alla follia, era l’estrema rinuncia a qualsiasi forma di orgoglio”. Karl Marlantes ha modo di descrivere in maniera inequivocabile i movimenti, gli schemi, le soluzioni e gli istinti, gli improvvisi e le deviazioni che costituiscono il caso e insieme il destino in guerra. Molte immagini sembrano provenire da visioni del Vietnam piuttosto che dal Vietnam stesso. La tigre assassina da Apocalypse Now, l’osso spezzato sulla roccia dal Cacciatore, le dinamiche tra graduati e soldati da Platoon, i colpi d’artiglieria sugli elefanti da Nell’esercito del faraone di Tobias Wolff e l’elenco potrebbe continuare un altro bel po’ perché Matterhorn arriva buon ultimo a riassumere anni e anni di infiniti tormenti. Come tutto il Vietnam, anche Matterhorn è il frutto malato di un’ossessione e assembla tutte le esperienze della guerra, certo partendo dalla realtà vissuta da Karl Marlantes, ma trasformandola in un monito. E’ compreso tra gli acronimi RHIP (il rango ha i suoi privilegi) e RIP, anche se nella giungla nessuno riposa in pace perché in Vietnam “non c’era modo di tappare i buchi causati dalla morte” che è il modo con cui Karl Marlantes in Matterhorn dice, compresa l’amarissima sequenza finale, che in guerra non c’è mai scampo. Nemmeno per chi si salva.
venerdì 24 giugno 2011
Karl Marlantes
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