Quello dei racconti di A volte ritornano è uno Stephen King spinto dall’urgenza dell’espressione e il formato del racconto lo spinge a scrivere con una particolare verve, più da storyteller che da scrittore, ruolo che lui stesso si ritaglia su misura: “Non sono un grande artista, ma ho sempre sentito il bisogno di scrivere. Così, ogni giorno torno a frugare la fanghiglia, riesaminando frammenti, scartati in precedenza, di ossessione, di ricordo, di riflessione, cercando di cavare qualcosa dal materiale che non è passato attraverso il filtro per perdersi poi giù per lo scarico del subconscio”. Quello che Stephen King cerca di plasmare, prima di tutto è una visione delle paure, in tutte le loro dimensioni, fino a quella più ancestrale che si cela sotto le nostre lenzuola: “Captiamo la forma. I bambini l’afferrano facilmente, la dimenticano, tornano a impararla da adulti. La forma è là, e tutti arriviamo presto o tardi a comprendere che cosa è: è la forma di un cadavere sotto un lenzuolo. Tutte le nostre paure assommano a una sola, grande paura, fanno tutte parte di quell’unica paura: un braccio, una gamba, un dito, un orecchio. Abbiamo paura del cadavere sotto il lenzuolo. E’ il nostro cadavere. E il grande significato della narrativa dell’orrore, in tutte le epoche, è che essa serve da prova generale per la nostra morte”. Forse è soltanto un esorcismo, ma va notato che in A volte ritornano è frequente la rivolta delle periferie e delle smalltown, da Salem a Gatlin, dove protagoniste sno le insurrezioni di esseri umani (spesso un po’ meno umani) che cercano di prendere il controllo e di solito ci riescono. L’horror, nella sua migliore versione, diventa un modo per rendere pubblica e tangibile un’insofferenza, una marginalità che sembra un virus da tenere alla porta. E’ una questione di spazi e di barriere che vengono spezzate: la paura parte sempre da un equilibrio che si rompe e Stephen King è sempre stato il narratore più adatto a comprendere dove comincia e dove finisce quella frattura perché ha sempre messo la storia davanti a tutto, anche alla forma. Dal suo punto di vista, lo scrittore “deve narrare una favola che tenga il lettore o l’ascoltatore affascinato, almeno per un poco, perduto in un mondo che mai fu, mai potrebbe essere. Per tutta la mia vita di scrittore ho sempre sostenuto che, nella narrativa, la storia domini qualsiasi altro aspetto dell’arte dello scrivere; caratterizzazione, tema, atmosfera, nessuna di queste cose ha importanza se la storia è noiosa. Se invece la storia vi prende tutto il resto può essere perdonato”. Non c’è dubbio che i racconti di A volte ritornano siano seminali e forniscano appigli sufficienti, tanto è vero che in più di un caso si sono trasformati in film, così come va ricordato che nella lunga introduzione Stephen King cita, tra gli altri, Kurt Vonnegut e Bob Dylan e sparge già i semi di riflessioni non fiction che poi più avanti diventeranno due dei suoi libri più personali, ovvero Danse Macabre e On Writing.
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