La genesi di un’opinione pubblica resta un processo imperscrutabile, difficile da provare, se non in termini scientifici, almeno secondo coordinate razionali. Ciò dipende soprattutto dal fatto che “la mente umana non è una pellicola che registri una volta per sempre ogni impressione che le giunga attraverso i suoi obiettivi e le sue lenti; la mente umana è infinitamente e persistentemente creativa. Le immagini sbiadiscono o si fondono, sono messe a fuoco qui, condensate là, a misura che ne impadroniamo più completamente. Non giacciono inerti sulla superficie della mente, ma invece vengono rielaborate dalla facoltà poetica sino a deviare una nostra espressione personale. Decidiamo il risalto da dare e partecipiamo all’azione. Per fare questo tendiamo a personalizzare la quantità e a drammatizzare le relazioni. Gli affari del mondo vengono rappresentati come una specie di allegoria”. L’opinione pubblica resta lo studio più convincente e adeguato anche a distanza di anni dalla sua prima pubblicazione, e nonostante le enormi trasformazioni storiche e tecnologiche nell’infido campo della comunicazione, l’analisi di Walter Lippmann resta attualissima, a partire dalla constatazione che “nella moderna civiltà industriale il pensiero procedere in un bagno di rumore”. È puntiglioso, metodico, minuzioso e assiduo, ma nello stesso tempo è chiarissimo: molto attento a usare un linguaggio forbito, ma semplice, dipana con precisione i meccanismi che portano alla costituzione dell’opinione pubblica e che, sostanzialmente, sono rimasti immutati. L’orientamento dell’opinione pubblica dipende da numerosi fattori che concorrono in modi diversi a sviluppare un’entità altrimenti indefinibile dove “vecchi significati ne scorrono via, e altri nuovi vi si infiltrano, e il tentativo di conservare il pieno significato del nome è faticoso quasi quanto quello di richiamare le impressioni originarie. Tuttavia i nomi sono una moneta debole per il pensiero, sono troppo vuoti, troppo astratti, troppo disumani. E così cominciamo a vedere il nome attraverso qualche stereotipo personale, a leggervi dentro e infine a vedervi l’incarnazione di qualche qualità umana”. Walter Lippmann riconosce come “il mondo che non vediamo ci viene rappresentato soprattutto con le parole” e “spesso i simboli sono così utili e così misteriosamente potenti che la parola stessa emana un fascino magico”. Il passaggio è un punto di non ritorno nello svilupparsi dell’opinione, in tutte le sue declinazioni, privata e/o pubblica, perché “la nostra prima preoccupazione di fronte alle finzioni e ai simboli è di disinteressarci del valore che hanno per l’ordine sociale esistente, e di considerarli semplicemente una parte importante del meccanismo della comunicazione umana. Ora, in qualsiasi società che non sia talmente assorbita nei suoi interessi né tanto piccola, che tutti siano in grado di sapere tutto su ciò che vi accade, le idee si riferiscono a fatti che sono fuori del campo visuale dell’individuo, e che per di più sono difficili da comprendere”. È la linea di confine che delimita un “ambiente invisibile” costruito con “il nostro repertorio di impressioni fisse” dove censura e propaganda, due strumenti che vivono in simbiosi, possono ingannare, blandire, confondere e, in definitiva, condizionare L’opinione pubblica con la funzione specifica di lasciare inalterato lo status quo perché, come ammette Walter Lippmann, “ciò che tiene insieme la macchina è un sistema di privilegi”, e non altro. Gli anticorpi risiedono nella conclusione “che le opinioni pubbliche debbano essere organizzate per la stampa, se si vuole che siano sensate, e non dalla stampa, come avviene oggi. Vedo questa organizzazione in primo luogo come il compito di una scienza politica che abbia conquistato il suo giusto posto di chiarificatrice dei dati su cui si dovranno basare le decisioni reali, invece che di apologeta, critica o cronista delle decisioni già prese”. C’è una sottile distinzione temporale tra il momento in cui viene formulata un’opinione, e quello in cui diventa di pubblico dominio, ma ancora di più, Walter Lippmann specifica che si tratta anche e soprattutto di uno sforzo che va oltre la cognizione dell’informazione in sé e “nel mettere insieme le nostre opinioni pubbliche, dobbiamo non solo immaginare più spazio di quello che vediamo con i nostri occhi, e più tempo di quello che possiamo percepire, ma dobbiamo descrivere e giudicare più individui, più azioni, più cose di quante possiamo mai contare o immaginare con chiarezza”. Un manuale di autodifesa, da tenere a portata di mano.
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