Sognare di partire per essere diversi, e poi ritrovarsi altrove, ancora uguali: Io sarò qualcuno è la conferma definitiva del talento di Willy Vlautin, ormai capace di affrontare un tema classico, quasi un cliché, in modo originale e con una voce molto personale. C’è un’idea di riscatto, ancora prima di affermazione o salvezza che spinge Horace Hopper alias Hector Hidalgo, il protagonista di Io sarò qualcuno. È un sogno maturato fissando i ritagli delle fotografie dei suoi pugili preferiti, tutti messicani, perché sono i più duri, quelli che non mollano mai. Un dettaglio importante che serve distinguere l’ambizione dalla realtà, come scriveva Jean Baudrillard in America, “proprio perché l’idolo non è che un pura immagine contagiosa, un ideale violentemente realizzato. Si dice: fanno sognare, ma c’è differenza tra il sognare e l’essere affascinati da determinate immagini”. È lì che Horace vuole diventare Hector, ma sa di avere un limite, sa che per diventare un campione dovrà combattere a lungo, e soffrire, ma in qualche modo dovrà riuscire a lottare con l’avversario più pericoloso: se stesso, perché “è difficile correggere qualcosa che sta dentro di te”. La scelta di Horace è drastica: sui pantaloncini della palestra fa ricamare un mitra Thompson, abbandona l’heavy metal con cui è cresciuto, e decide di lasciare il ranch dove vive e lavora a Tonopah, Nevada con i monti Monitor a far ombra. La sua storia viaggia in parallelo a quella di Mr & Mrs Reese, la coppia che l’ha cresciuto come un figlio: la speranza è il denominatore comune, ma in forme che si oppongono. Loro credono in lui, e vorrebbero lasciargli il ranch, Horace conta solo su se stesso convinto, al contrario, che “devi creare il tuo futuro, e devi farlo da solo”. Per lui il ranch è il luogo dove è tutto fermo, la boxe il mezzo per andarsene e per emanciparsi. Nel viaggio, Horace trova una ragazza incinta con un neonato, una scena che sembra uscita da Angeli di Denis Johnson e Mr. Reese, che lo segue, incontra due ragazzi con un cane malato, gli animali sono onnipresenti quasi a sottolineare un’umanità sfiancata. La rincorsa all’idea di essere qualcuno, nella convinzione (mai confermata) che “se uno lavora duro, le cose si mettono nel verso giusto” lo vede a Tucson, poi Salt Lake City e poi El Paso fino a Las Vegas dove trova la sua versione della Città amara di Leonard Gardner. Le insidie sono inevitabili, ma nel contesto non sono più pericolose del panico che si porta dietro Horace perché “deve essere dura odiare se stessi ogni singolo giorno, è difficile tentare di essere o fingere di essere ciò che non sei. Sono cose che esigono un prezzo”. Potrebbe avere un futuro davanti a sé, è un ottimo incassatore e ha i colpi giusti per risolvere gli incontri, picchia “duro” e picchia “difficile”, ma si trova sempre nell’angolo in preda al panico, immobile, e, come se la sua ambizione lo divorasse, “era come se più si avvicinava a quello che voleva, più si sentiva smarrito”. Dall’altra parte, a Tonopah, la vita scorre lenta e inarrestabile. Mrs Reese non vuole saperne di muoversi, neanche per andare a far visita alle figlie che se ne sono andate da tempo, e Mr Reese si mantiene vigile e attivo smontando e rimontando i suoi mezzi. Loro, a confronto con il futuro limitato, si limitato a pensare di aver “solo bisogno di azzerare e ripartire, una pausa per dare una ripulita e sistemare le cose”. In effetti l’unica occasione di movimento è quando la coppia, sorridente, sale a bordo di un trattore. A volte per la felicità basta un motore che funziona e la scena ricorda da vicino la Trilogia della pianura di Kent Haruf non solo per l’atmosfera rurale, quanto per la la capacità Mr & Mrs Reese di ascoltare e comprendere, quasi una forma di compassione di fronte ai sogni che svaniscono. La mancata redenzione, che è il negativo della vocazione di Io sarò qualcuno, è un destino che incombe su Horace fin dalla scelta dello pseudonimo. Se nell’Iliade, Ettore viene tradito dall’armatura che un tempo era di Achille, Horace è condannato dalla fragilità della sua corazza, una storia che Willy Vlautin sa affrontare con il tatto e il rispetto dovuto ai loser, con il tono sincero di uno sconosciuto che racconta la sua storia al bancone di un bar, senza aver nulla da perdere.
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